Parlare di omosessualità a scuola

Nella discussione seguita al mio primo articolo, abbiamo parlato della necessità di fare delle attività nelle scuole che sensibilizzino gli studenti e le studentesse sui temi dell’omosessualità (e aggiungerei della transessualità, troppo spesso trascurata, e dell’intersessualità, illustre sconosciuta), e che magari rendano la vita più facile ai ragazzi e alle ragazze gay, lesbiche e bisessuali in Molise.

Come ho anticipato nel commento, a Bologna esistono molte realtà che lavorano in questo senso nelle scuole medie e superiori, con dei progetti veramente interessanti.

Inserisco di seguito i loro link, nella speranza che possano dare qualche spunto a insegnanti e formatrici/formatori molisani, o anche alle studentesse e agli studenti che volessero avviare delle attività autogestite in questo senso.

Intanto si è conclusa il 16 ottobre scorso la Settimana contro la violenza, promossa dal Ministero dell’Istruzione e dal Ministero delle pari opportunità per combattere la violenza e la discriminazione comunque intese (bullismo, omofobia, razzismo, discriminazione religiosa).

L ‘iniziativa, nata nel 2009 in modo piuttosto estemporaneo come risposta al rilievo mediatico assunto da alcune aggressioni ai danni di persone omosessuali a Roma e a Firenze, si sostanzia in finanziamenti erogati a enti vari attivi nella lotta alle discriminazioni per effettuare degli interventi di sensibilizzazione nelle scuole di ogni ordine e grado.

Arcigay è una delle realtà che hanno usufruito dei finanziamenti, e grazie ad essi ha realizzato progetti contro l’omofobia in cento scuole italiane.

L’associazione ha espresso grande soddisfazione per l’iniziativa, soddisfazione che non possiamo che condividere, ma che per quanto mi riguarda è guastata dal fatto che, nel medesimo comunicato, Arcigay abbia espresso addirittura “un sentito ringraziamento” alla ministra Maria Stella Gelmini, invece di cogliere l’occasione per farle notare che il suo progetto di smantellamento dell’istruzione pubblica non darà certo un gran contributo alla costruizione di una società più aperta e rispettosa o, se proprio non era possibile questo, perlomeno tacere.

Arcigay – che pure a livello locale realizza progetti molto validi – in questo comunicato parla come se la lotta all’omofobia nella scuola fosse unicamente questione di far intervenire appositi specialisti nelle classi, o di ottenere la benedizione ministeriale per qualche associazione glbtiq, e non avesse minimamente a che fare con l’esistenza di un progetto complessivo di istruzione pubblica democratica e di qualità, che è appunto ciò che questa ministra sta distruggendo, con conseguenze che – se la riforma non viene fermata – pagheremo fino in fondo nel corso dei decenni, con l’avvicendarsi delle generazioni.

Con classi di trenta e più alunni, con insegnanti di religione, scelti dai vescovi, che guadagnano punteggio e poi passano ad altre materie, scavalcando gli altri precari/e (problema questo ben più antico della Gelmini), con una politica che favorisce, direttamente e indirettamente, le scuole private cattoliche, e di fronte a un progetto di smantellamento di fatto dell’università pubblica, non credo che una settimana contro la violenza basti a salvarci dall’involuzione omofoba, sessuofoba e razzista della società italiana.

Benvenga però anche la Settimana contro la violenza, e soprattutto benvengano tutte le buone pratiche che associazioni, singole scuole e singoli/e insegnanti e studenti già mettono in atto in questo campo.

Ci sono molti modi di lavorare contro l’omofobia nel campo dell’educazione, esemplificate dai progetti che ho elencato all’inizio di questo articolo.

Si può semplicemente discutere il problema in un’assemblea, a partire da specifici episodi o in generale, presentando le persone glbit come vittime di discriminazioni e di violenze oppure come soggetti che reclamano diritti.

Si può parlare di diversi orientamenti sessuali e portare in classe formatori e formatrici gay e lesbiche che mettano in gioco se stessi nel rapporto educativo.

Si può avviare un processo di riflessione sugli stereotipi di genere a partire dall’analisi di pubblicità, film, giocattoli o di qualunque altro prodotto culturale, o lavorare sul vissuto degli alunni e delle alunne attraverso giochi di ruolo, discussioni e altri metodi interattivi.

Si può creare uno spazio di incontro facilitato in cui chiunque, anche al di fuori di un contesto scolastico, abbia la possibilità di chiacchierare con una persona appartenente a una categoria discriminata o oggetto di stereotipi (omosessuali ma anche stranieri, disabili, autisti di autobus…) e possa magari smontare i propri preconcetti attraverso la relazione faccia a faccia e il confronto con l’esperienza individuale. E’ questo il caso della Biblioteca vivente, che voglio segnalare in particolare perché è il progetto più facilmente replicabile e adattabile ai più vari contesti.

Personalmente, non amo i progetti che tendono a inserire in modo troppo generico l’omofobia nel contesto della lotta al bullismo, all’intolleranza, alle discriminazioni di qualunque tipo… Come dire: “ecco i diversi, siate buoni con loro”.

E trovo anche che sia poco simpatico, per un ragazzo o una ragazza omosessuale, sentir parlare di gay e lesbiche sempre e solo in quanto vittime… Come ha osservato un operatrice del Progetto Alice durante l’incontro che si è tenuto all’Atlantide di Bologna, l’omosessualità non è una sfiga, e a presentarla – anche involontariamente e indirettamente – in questo modo si rischia che i ragazzi e le ragazze che hanno problemi con la loro sessualità si sentano sempre più derelitti, e quelli che invece non ne hanno continuino a non riconoscersi e a non sentirsi coinvolti.

Trovo invece molto interessanti gli approcci che inseriscono il problema dell’omofobia all’interno della questione del sessismo e della costruzione dell’identità di genere, e fanno vedere come l’eterosessualità obbligatoria sia una parte fondamentale di quel processo invisibile per cui si dà per scontato che ognuno e ognuna di noi non solo si costruisca come uomo o come donna in base al sesso biologico di nascita, ma, in maniera ancor più ovvia e scontata, come uomo etero o come donna etero.

In quest’ottica, l’omofobia non è più un problema che riguarda una minoranza discriminata, con la quale la maggioranza deve essere solidale per una sorta di dovere civile e morale. Al contrario, essa è un problema di tutti/e, perché costringe e limita la sessualità e la costruzione dell’identità di tutti/e, compresi di quelli/e che si sentono attratti prevalentemente da persone del sesso opposto, perché li obbliga a fare così, a essere per sempre così, e spesso a disprezzare (o al più “tollerare”) l’omosessualità negli altri e in se stessi.

Sappiamo bene, ad esempio, che i giovani maschi eterosessuali si sentono in qualche modo obbligati a difendersi continuamente da ogni minimo potenziale sospetto di omosessualità.

L’identità maschile tradizionale prescrive loro niente intimità con gli amici maschi, niente contatti fisici con altri maschi se non nella lotta e nello sport, dosi massicce di “terrore anale” (= tutto quell’orribile armamentario retorico destinato a ribadire ogni momento la propria identità eterosessuale sotto forma di sacra integrità del proprio didietro), e soprattutto una buona dose quotidiana di battute volgari sulle ragazze e sui froci per rassicurare il pubblico a casa che non c’è traccia di femminilità e omosessualità nella loro virile persona.

E’ per questo che un progetto come il Fiocco Bianco, destinato a combattere la violenza maschile contro le donne, ha in realtà molto a che fare anche con l’omofobia, dato che lavora moltissimo sulla decostruzione di questi modelli di genere.

Detto questo, è vero che in alcuni contesti il solo fatto che le parole “lesbica”, “gay” o “trans” vengano pronunciate è già estremamente significativo. Il telefono amico gay che ha funzionato dall’ottobre 2007 all’aprile 2008 presso l’assessorato alle politiche giovanili di Campobasso a cura dell’associazione Agenda 21 è stato probabilmente importante per questo: perché se non altro era un gesto che per la prima volta presupponeva l’esistenza di gay e lesbiche nel Molise.

Questo sarà forse l’argomento del prossimo post. Ma nel frattempo mi chiedo: è stata davvero quella la sola, l’unica iniziativa in abito glbitq che il Molise ricordi? Davvero il Molise è un desolante deserto da questo punto di vista?

Vi prego, smentitemi: se avete un collettivo anche solo di due persone, se avete un’associazione queer fantasma, se anche solo uno dei vostri insegnanti ha pronunciato anche una sola volta la parola “gay”, “lesbica” o “trans”, se avete fatto un’assemblea su queste tematiche… vi prego, scrivete. Lo spazio commenti è a vostra disposizione così come la mail di tratturi: tratturi(chiocciola)insicuri(punto)net

Alessia Acquistapace