La notizia dell’imminente abrogazione delle disposizioni relative alla costruzione di nuovi impianti nucleari scatena una tempesta mediatica; il quotidiano gossipparo laRepubblica, i cui giornalisti vivono da anni nelle mutande del Presidente del Consiglio, avalla una lettura del provvedimento in chiave anti-referendaria: una mezza vittoria quindi, il cui prezzo però sarebbe il rischio quorum per i referendum sull’acqua e sul legittimo impedimento.
La realtà è un po’ più complessa: l’emendamento al decreto abrogativo prevede infatti che entro dodici mesi il governo dovrà elaborare una nuova strategia per l’approvvigionamento energetico, che potrà ovviamente tenere conto anche del nucleare. Gli interessi in campo restano, comunque, ben più ampi di quanto traspaia dal dibattito politico.
Il ritorno al nucleare fa parte sin dagli inizi del programma del governo Berlusconi, tant’è che viene inserito già nel decreto n.112 del Giugno 2008, a pochi mesi dalle elezioni. L’esplosione della bolla finanziaria, col fallimento delle banche d’investimenti statunitensi, doveva ancora avvenire: c’era la possibilità di pensare ad investimenti in termini di ricerca e sviluppo tecnologico sul medio-lungo periodo in un settore, quello dell’energia nucleare, fermo, in Italia, dal 1987.
Come si fa ad avere un interesse economico ad investire in centrali che, nelle previsioni più ottimistiche, entrerebbero a regime non prima di vent’anni?
La scelta strategica del nucleare avrebbe comportato (comporterà?) la possibilità di fare profitti a livelli intermedi, dall’accaparramento di fondi per la ricerca, alla progettazione, alla costruzione – ai tempi lunghi per la costruzione – e via discorrendo; a regime, la diminuzione del costo economico di produzione dell’energia avrebbe comportato un aumento notevole del saggio di profitto per le imprese; inoltre, la diversificazione dell’approvvigionamento energetico avrebbe rafforzato i principali attori sul mercato, nonchè in generale il capitale a base nazionale in un’ottica di competizione globale.
Non è quindi un caso che a guidare la campagna per il ritorno al nucleare ci siano personaggi come Chicco Testa, il cui nome negli anni è figurato nei consigli d’amministrazione di Acea, Enel, Wind, Rothschild; sempre non per caso, tra i soci fondatori, ordinari e onorari del Forum Nucleare Italiano, nato a Luglio del 2010, troviamo Enel, EdF (l’Enel francese), ENI, Terna (distribuzione energia), Ansaldo, GdF (l’ENI francese), Confindustria, Cisl, Uil, Politecnico di Milano, la Sapienza di Roma, le Università di Pisa e Palermo…insomma, un bel parterre di soggetti del tutto disinteressati al mercato dell’energia in Italia, finanziatori del Forum (e della famosa pubblicità, poi giustamente parodiata) per puro amore della ricerca.
Che succede nel giro di tre anni?
Poco e niente, a parte il fallimento dei principali istituti di credito statunitensi, di un colosso dell’auto e di un paio di stati, un aumento di circa il 60% del prezzo dei cereali, un tasso di disoccupazione a doppia cifra in tutti i paesi a capitalismo avanzato, licenziamenti di massa, tagli alla spesa pubblica: certamente non è il periodo più roseo per programmare investimenti a lungo termine; se aveva ragione Keynes a sostenere che nel lungo periodo saremo tutti morti, la realtà ci mostra invece zombies che camminano tra di noi…Quale soggetto può avere, in questo momento, forza economica sufficiente a garantire la copertura degli investimenti sul nucleare per un periodo di tempo medio-lungo? Il Governo italiano inizia a tentennare, il nucleare passa in secondo piano nell’agenda politica, tardano a definirsi i siti di costruzione delle nuove centrali, quello che doveva essere il grande affare dei decenni a venire certo non viene cancellato, ma sicuramente diventa più opaco, finchè…una sicurissima centrale nucleare del Giappone, danneggiata da uno tsunami, incomincia ad emanare forti radiazioni ed è a rischio esplosione.
L’opinione pubblica di tutto il mondo è scossa dall’evento, in Europa la Germania mette in mora la costruzione di nuove centrali mentre in Italia ci si incomincia a chiedere se valga davvero la pena di investire in questo settore con la giustificazione che le centrali – francesi – le abbiamo ai confini, quindi tanto vale costruirle noi. Con Fukushima arriviamo alla cronaca recente, che ci racconta di un dietrofront del Governo – e dei nuclearisti del Forum, di fronte ad un dissenso crescente nell’opinione pubblica che avrebbe fatto temere un esito positivo per i referendum: ma sono troppi i referendum senza quorum nella storia recente, e più ancora quelli vinti ma poi cancellati ope legis per pensare che la motivazione del dietrofront sia solo questa.
Alcuni tra i maggiori protagonisti del mercato dell’energia hanno, infatti, incominciato a guardarsi intorno: l’ENI, ad esempio, che pure nel 2008 progettava la costruzione di centrali nucleari in Egitto e in Algeria, ha calcolato l’aumento della domanda europea di gas in seguito alla moratoria tedesca sul nucleare e avrà sorriso, considerando che è uno dei principali attori mondiali nell’estrazione e nel trasporto di gas naturale; sarà un caso, ma è di Marzo la notizia dell’ingresso del gruppo tedesco Wintershall nel progetto italo-russo del gasdotto sottomarino Southstream, che dovrebbe portare gas dalla Russia all’Europa, passando per il Mar Nero, i Balcani e l’Italia, e che è da anni in competizione con quello, di profilo più “europeo” del Nabucco, che passerebbe per la Turchia e i Balcani finendo in Austria. Non dimentichiamo che l’ENI è tra i soggetti estrattori in Basilicata, il più grande giacimento petrolifero europeo, che potrebbe essere autorizzato, visti i tempi, ad un aumento della produzione di barili.
E l’ENEL? L’ENEL sembrerebbe essere la più penalizzata dallo stop al nucleare, dal momento che è leader del mercato dell’energia elettrica in Italia, e dal nucleare avrebbe potuto ricavare energia a costi irrisori (dopo aver maturato ampi margini di profitto nella costruzione): l’ENEL gestisce, però, insieme ad Edison e E.ON., altri soci del Forum Nucleare, un quarto dell’energia eolica italiana, settore che proprio di recente aveva subito il blocco degli incentivi (blocco che probabilmente verrà ridiscusso); nel settore delle cosiddette “rinnovabili” ci sono poi anche i termovalorizzatori, spesso di proprietà di colossi industriali quali Impregilo.
Morto un business (ma non è detto) se ne fa subito un altro, a costi minori dato che sono già stati fatti gli investimenti in capitale fisso, e con una immediata redditività: già oggi l’eolico italiano è un affare colossale, dal momento che ottenere l’autorizzazione ad un impianto è facilissimo, la regolamentazione è scarsa e non c’è un piano nazionale: oltre alle grandi imprese, anche altre organizzazioni criminali hanno già messo le mani nell’affare, e abbiamo già casi, come quello molisano, dove c’è un potenziale produttivo di energia di gran lunga superiore al consumo regionale, tant’è che molti impianti restano spesso spenti. Lo stesso vale per i termovalorizzatori, il cui costo economico di gestione è basso, che vengono incentivati e la cui costruzione è “spinta”, al sud, molto anche dall’esplodere periodico e rituale della cosiddetta “emergenza rifiuti”.
Come appare, quindi, evidente, la questione non è semplicemente essere pro o contro il nucleare: mentre il nucleare subisce una battuta d’arresto, tralaltro temporanea, vanno avanti i piani energetici scellerati e le devastazioni di ampie porzioni di territorio per costruire parchi eolici, solari, termovalorizzatori, e via discorrendo; il Sud, in particolare, dopo aver pagato più caro i costi della crisi con la ristrutturazione o la chiusura dei pochi distretti industriali attivi, si avvia a diventare, nei piani di Governo e Confindustria, la “batteria” nazionale, una sorta di enorme parco energetico che sfrutta le risorse naturali senza nessun ritorno in termini economici o occupazionali per il territorio.
Il problema, come sempre, non è una produzione energetica più o meno pulita, un sistema più o meno buono di gestione: il problema principale è il profitto del capitale, ed è contro questo che dobbiamo concentrare i nostri sforzi.
Una battaglia per sottrarre una serie di beni, i cosiddetti “beni comuni” – acqua, sole, aria, territorio, minerali – e i settori primari come quello dell’energia alle logiche della privatizzazione e del profitto, attraverso la ripubblicizzazione della gestione, la pubblicità e la condivizione delle decisioni in materia di approvvigionamento energetico, idrico, produzione e gestione del rifiuto, non è certamente la soluzione ma può rimettere una serie di lotte deboli e separate sui binari giusti del rafforzamento reciproco e della rinascita di una nuova stagione di rivendicazione di diritti: alla vita, al lavoro, al salario, alla salute, all’autodeterminazione.