(Anc)Ora e sempre, RESISTENZA

Verso un 25 aprile antifascista, antirazzista e antisessista

 

Anche quest’anno arriva, puntuale, il 25 Aprile, festa della liberazione dal nazi-fascismo. Un po’ meno puntuali sembriamo essere noi. Già, ma noi chi? Perché il 25 Aprile, oltre che essere la festa dei partigiani comunisti che combatterono contro le forze di occupazione naziste e contro la repubblica di Salò costituita da Mussolini in fuga, sembra essere diventata sempre più qualcosa che pone i comunisti e gli antifascisti di oggi di fronte al dilemma della propria identità. E questa, a dispetto di quello che troppo spesso si dice sui dubbi, non è una buona notizia.

Noi comunisti, e noi antifascisti – dicevamo – ci troviamo sempre più impreparati a questo appuntamento, che sembra avere senso per pochi. Gli ultimi anni hanno imposto la riscrittura di una memoria storica; una malcelata pretesa di imparzialità ci ha tolto quello che era il riferimento più importante: la costruzione di una società libera dallo sfruttamento umano, e il tentativo storico, più significativo e a noi più vicino, che in questo senso era stato fatto attraverso la resistenza armata comunista. Non c’è tanto da girarci intorno; è questo, e non altro, quello che vogliamo celebrare, quello che per noi è la resistenza.

Dietro la retorica della verità storica e della oggettività, si è affermato un vero e proprio progetto di riscrittura e di rimozione.

L’appello al buon senso comune ha imposto la riscrittura di libri di storia e il revisionismo di certe opinioni, sulla base di un assunto banalissimo: che chi muore per un’idea, qualunque essa sia, è da apprezzare e da biasimare allo stesso tempo. Apprezzare come si apprezza un monumento, una vecchia foto, o un cimelio di un tempo lontano da noi che ci dà una lezione di eroismo, un esempio di coraggio e – perché no – di moralità; da biasimare perché testimone di un’epoca barbara, selvaggia, infantile, fatta di assoluti e caratterizzata dal tentativo di imporre una visione del mondo con la forza. Questo moralismo storico, che non si interroga né sulle cause né sulla posta in gioco di certi avvenimenti e di certe scelte, è diventato la modalità culturale attraverso cui la riproposizione di messaggi autoritari, classisti, discriminanti, ha riacquistato legittimità. Già perché, per chiarirci, il corollario di questo assioma storiografico è che partigiani e fascisti repubblichini sono tutti uguali. I tedeschi un po’ meno, perché occupavano il suolo nazionale, ma i repubblichini di Salò e i giovani partigiani avevano tutti e due a cuore il destino della patria e dunque – senza entrare nel merito dei loro progetti – tutto sommato erano dei giovani eroi che in un clima di ritrovata unità nazionale devono essere celebrati come dei giovani, belli, arditi, ventenni, pronti a combattere per ciò che credevano giusto. Salvo poi, ovviamente, condannarne la violenza, fisica e politica. Così, partigiani e fascisti, un po’ violenti un po’ ribelli, sembrano non avere niente da dire fuorché la proposizione di una mitografia posticcia, fatta di revisionismo, di ragione dei vinti e di tanta, ma tanta, fiction televisiva.

Tutta questa retorica ci fa dimenticare un piccolo particolare; che nella valutazione di un fenomeno, di un fatto, e nella scelta di aderire e valutare quel fatto, i contenuti dei progetti e delle aspirazioni che sono messe in campo non è secondario. I partigiani e i fascisti combattevano per cose completamente diverse. I fascisti avevano governato uno stato dove funzionavano ancora i titoli nobiliari – alla faccia dell’uguaglianza – e propugnavano una società basata sulla gerarchia; i fascisti avevano promulgato e mantenuto leggi che confiscavano beni e proprietà e interdivano da ogni ufficio e diritto civile chi aveva una diversa provenienza etnica o solo culturale, e chi era omosessuale; i fascisti avevano deciso l’assunzione degli operai e il loro licenziamento sulla base della loro comprovata adesione ideologica e disciplinare al Partito Nazionale Fascista; i fascisti si erano resi protagonisti di una politica estera aggressiva e violenta, nonché autori di alcune delle più atroci operazioni di sterminio chirurgico di intere popolazioni in Somalia, Eritrea, Libia, in Grecia e in Albania.

I partigiani, certo, non usavano gavettoni, ma bombe, mitragliatori e fucili; compivano azioni che oggi come ieri venivano definite azioni di terrorismo, ammazzavano le spie che si infiltravano nei loro gruppi, e uccidevano i fascisti e i nazisti. Il senso di questa guerriglia, però, non era prendere e riprendere un potere che avevano amministrato per affermare il diritto del più forte, ma provare a costruire una comunità dove i lavoratori non dovevano fare professioni di fede per i destini di Roma imperiale, né genuflettersi di fronte a un capo, ma dove potevano vivere del proprio lavoro e della propria abilità, distribuendo e godendo i frutti della loro fatica controllando la produzione, liberi dai vincoli salariali che gli obbligavano a regalare il loro lavoro a qualcuno che arricchiva il proprio profitto privato; dove la provenienza e la differenza culturale non fosse più un affare pubblico e dove il razzismo e il sessismo fossero parole senza senso, dove solo l’impegno per la costruzione delle condizioni di vita migliori per tutti fosse la discriminante nel giudizio sulla condotta di una persona; dove ciascuno avesse le stesse possibilità di studiare, lavorare, vivere.

La retorica moralista che vuole farci credere che i fascisti e i partigiani siano per davvero la stessa cosa ci sta facendo dimenticare questa abissale differenza che ci pone di fronte a una domanda. Non sulla verità storica, ma sulla nostra identità, su quello che vogliamo essere, su quello che vogliamo fare. Ogni 25 Aprile dobbiamo chiederci da che parte stiamo, senza cercare l’oggettività della storia, ma tentando di rispondere con partigianeria. Da che parte siamo stati quest’anno?

Abbiamo pensato che l’articolo 18 sia un rottame di una vecchia civiltà, oppure un diritto che non possiamo più permetterci? Abbiamo pensato che la libertà di assunzione e di licenziamento è in fondo un valore, è qualcosa che migliora le condizioni della nostra economia nazionale e che se in fabbrica c’è un po’ di disciplina, piuttosto che l’indiscriminato diritto di scioperare, è meglio per tutti? Abbiamo pensato che gli omosessuali siano liberi di fare quello che vogliono ma solo a casa loro o in luoghi deputati alla loro espressione? Abbiamo pensato che i gay non ci danno nessun fastidio, però non è il caso che insegnino nella scuole elementari o, peggio, che allevino un figlio proprio? Abbiamo pensato che se una ragazzina rimane incinta peggio per lei che non è stata attenta e che si è giocata la sua possibilità di scelta se essere madre oppure no? Abbiamo pensato che purtroppo la donna deve lavorare perché servono due stipendi, ma guai a smettere di essere mamma o casalinga? Abbiamo pensato che gli immigrati devono essere rinchiusi identificati e poi sbattuti a calci in culo a casa loro? Abbiamo pensato che vivere in Italia è un privilegio e per goderne bisogna provare di avere un lavoro regolare o di conoscere la lingua italiana affermandone la superiorità culturale? Abbiamo pensato che no, non siamo razzisti, ma gli immigrati tornassero a casa loro perché qui non c’è trippa per gatti e bisogna tutelare prima agli italiani?

Oppure…. Oppure abbiamo scioperato con i lavoratori per difendere l’articolo 18 e per mandare a casa un governo di banchieri e grandi industriali? Oppure abbiamo difeso la libertà di opinione, il diritto a essere reintegrati se il licenziamento è un licenziamento politico? Oppure abbiamo pensato che le differenze di gusti sessuali non riguardano nessuno? Oppure abbiamo affermato il diritto a adottare un bambino, ad avere un figlio, o a non averlo e a fare l’amore come ci pare e piace? Oppure abbiamo chiesto la chiusura dei CIE e dei CPT, cioè dei campi di concentramento del XXI secolo? Oppure abbiamo chiesto di farla finita con questa storia del permesso di soggiorno? Oppure abbiamo chiesto condizioni di vita migliori, un lavoro dignitoso e sufficientemente remunerativo per tutti? Abbiamo difeso i profitti o i diritti? Siamo stati fascisti o partigiani?

Il dopo guerra non è mai finito e lo stesso conflitto di 70 anni fa chi chiede ancora di prendere posizione, puntuale, anche quest’anno.