Riceviamo e pubblichiamo il contributo della compagna M. Giuseppina Fusco.
Care ragazze, chi vi scrive è una ragazza del secolo scorso. Avevo trent’anni quando il Parlamento dopo quello che fu chiamato “l’autunno caldo” approvò norme a protezione delle lavoratrici madri e furono istituiti i nidi comunali. Ne avevo qualcuno in più quando vincemmo il referendum sul divorzio. Ne avevo quaranta quando vincemmo quello sull’aborto. Stavo giusto nel mezzo di quella favolosa età, quando fu approvato il nuovo diritto di famiglia, che tra l’altro riconosceva la patria potestà ad entrambi i genitori e istituiva i consultori familiari. Vigilammo su quanto di competenza locale per l’attuazione delle nuove leggi. Le leggi, noi donne lo sapevamo, sono come le idee: per camminare hanno bisogno delle gambe delle persone che ci credono. In quegli stessi anni, dopo l’orrore dei delitti del Circeo, affrontammo il tema della violenza sessuale, della necessità di una legge che punisse la violenza non come offesa alla “morale”, ma come offesa alla “persona”.
La donna come “persona”. Quella contro la violenza sessuale è stata una tra le leggi che ha avuto l’iter parlamentare più difficile e lungo (quasi 20 anni) della storia d’Italia. A riprova, se mai ce ne fosse bisogno, della durezza rocciosa del maschilismo nella cultura italiana. La prima proposta di legge era stata presentata nel 1977 dal Pci (allora esisteva il Pci!). La riforma delle norme contro la violenza sessuale era stata discussa da anni, ed aveva avuto una forte accelerazione proprio in occasione del processo per i delitti del Circeo, quando il movimento delle donne aveva dato vita a manifestazioni, tra il 1975 e il 1976, nel tentativo di sollecitare l’opinione pubblica e i partiti ad occuparsi della questione. Noi donne sapevamo che occorrono buone leggi, ma sapevamo anche che quello che consente la nascita di buone leggi, e il loro successivo funzionamento, è il mutamento della mentalità, su cui agisce solo una perenne rivoluzione culturale. È il campo di forze reali, quelle materiali e quelle immateriali, a produrre le leggi. Non viceversa. Nel 1979, infatti, per preparare una legge di iniziativa popolare, che raccolse oltre trecentomila firme, facemmo decine e decine di riunioni, di incontri, di dibattiti: scavammo come talpe tenaci nel fondo terroso della cultura dominante. Anche noi, in questa nostra piccola e sonnolenta città, contribuimmo all’elaborazione del testo e raccogliemmo le firme. Perché vi scrivo? Perché vi abbiamo lasciato un’eredità. C’è un legame tra quelle come me, che furono ragazze nel secolo scorso, in un mondo difficile, e quelle come voi, che sono ragazze oggi, in questo mondo difficile. Non è un’eredità, come troppo spesso si dice, di “conquiste”. Qualche “conquista”, forse, ve la abbiamo lasciata, ma le “conquiste”, si sa, non sono mai veramente stabili. Niente si conquista una volta per tutte. Pensate, tanto per fare un esempio, alla maternità come scelta libera e consapevole: la 194 tutela la libera scelta, ma la 194 sta per essere sfrattata dal nostro ospedale. E la sanità pubblica sta per essere inghiottita da istituzioni private. Dunque c’è una lotta da portare avanti. Quella che vi abbiamo lasciato è un’eredità di lotta. Di tensione a mettere in discussione l’esistente, a non dare mai nulla per scontato. A scavare anche il terreno più duro. A non accettare sconfitte. A non considerare immutabile il campo di forze: possiamo sempre provare a mettere in moto una rivoluzione morale e culturale. Sempre con lo sguardo alto, oltre la linea dell’orizzonte. Ma sempre attente a piantare solidi paletti nel terreno conquistato. È questa l’eredità che non deve andare perduta. Perciò vi scrivo, per chiedervi di raccogliere l’eredità che vi abbiamo lasciato. Fatelo per voi stesse, non per una ragazza del secolo scorso. Fatelo per costruire il futuro.