Sorrisi precari

Cercare di essere disponibili. Estremamente disponibili. In uno strano limbo, dove il confine tra disponibilità e sottomissione è labilissimo. E poi sorridere. Sorridere sempre.

Si chiama, tecnicamente, “parasubordinazione”: trattasi di un tipo di rapporto con caratteristiche intermedie tra il lavoro subordinato e quello autonomo. E’ una forma di collaborazione svolta in maniera continuativa, collegata con la struttura organizzativa del datore di lavoro. Sono considerati lavoratori parasubordinati i lavoratori a progetto, i collaboratori occasionali, i somministrati, le partite IVA, i tirocinanti, gli stagisti, i lavoratori con contratti di formazione e le mille altre tipologie di lavoratori considerati “atipici”. Così tanti e così diversi da porre innanzitutto un problema di identità, di riconoscimento di una storia comune collettiva. Che però esiste, perché alcune caratteristiche accomunano per intero questo universo, spacciato come “lavoro flessibile”…

In realtà di flessibile c’è poco: secondo l’ultima ricerca NIDIL CGIL – IRES, la maggior parte dei collaboratori e delle collaboratrici (80%) svolge il proprio lavoro per un unico committente, soprattutto se ha un contratto di lavoro a progetto o una co.co.co.. A questi si aggiunge quella parte di pluri-committenti (17%) che comunque ha un rapporto prevalente e abituale con un unico committente, a cui soltanto di rado affianca altre collaborazioni minori e più saltuarie, magari perché la retribuzione principale è troppo modesta.

Ma i precari sono giovani? Tendenzialmente, i lavoratori atipici sono, oggi, per lo più trentenni che svolgono già da tempo la loro professione, spesso con lo stesso datore di lavoro. Di fatto, appena il 21,7% del totale – soprattutto i più giovani – è entrato nel mercato del lavoro da meno di tre anni.

Al carattere tendenzialmente continuativo delle relazioni di collaborazione si contrappongono, tuttavia, la durata e la reiterazione dei contratti. Ciò aumenta il senso di incertezza e di precarietà, anche quando la relazione di lavoro si sviluppa su un periodo relativamente lungo con lo stesso datore di lavoro. Relazioni di lavoro relativamente stabili, soprattutto per le professioni meno qualificate, passano infatti perlopiù attraverso tanti contratti brevi (anche 10-15 contratti), raramente superiori a un anno (poco più della metà ha un contratto di circa un anno, il 33% non arriva ai sei mesi, con punte eccezionali di contratti brevissimi, addirittura inferiori a un mese).

Spesso la carriera da precario inizia con i tirocini universitari obbligatori: trattasi di ore di lavoro presso imprese ed enti pubblici, con finalità che di formativo hanno ben poco. Sono tirocini gratuiti, spesso proseguiti in fase post lauream nella speranza di avere l’agognato contratto. Atipico, ovviamente.

Dunque a diventare flessibile è la vita, i propri progetti che vanno scadenzati al brevissimo termine. Decidere se rimarrò nella mia città in relazione al rinnovo o meno del contratto, decidere se fare un corso o un master in base all’orario che viene assegnato di mese in mese. La ricerca prova che gli orari di lavoro dei collaboratori intervistati sono mediamente lunghi, soprattutto nel settore privato. Ben il 50% del campione (e il 63% nel settore privato) lavora infatti più di 38 ore a settimana, con un punte oltre le 45 ore. Si tratta soprattutto dei lavoratori che svolgono le professioni più qualificate, sia tecniche che scientifiche, e ancora di più degli stagisti e dei tirocinanti. Tra questi, ben il 72% lavora più di 38 ore a settimana.

Così più che investire su scelte e su progetti si cerca il modo migliore per procrastinare le une e gli altri: la gestione del tempo diventa una vera ossessione. Una lotta contro il tempo che spesso implica la costante esigenza di riorganizzarsi la vita, in base a cambiamenti di orari e spostamenti. Ciò, in una regione come il Molise ove ad essere precari sono anche i servizi, diventa una missione spesso impossibile. Spesso cambiare un orario vuol dire non avere più neanche l’autobus che ti porta a casa la sera.

Pretendiamo troppo, è vero. Un contratto di lavoro, magari retribuito (spesso ci si ritrova a festeggiare di aver ottenuto uno stage gratuito) e dei servizi. Nell’ultimo anno i servizi di trasporto pubblico nella città di Campobasso sono stati “riorganizzati” (rectius: tagliati!) almeno tre volte, la minaccia costante ai servizi sanitari e sociali ed i tagli agli investimenti nel settore scolastico e culturale sono sotto gli occhi di tutti. Avere o meno un servizio spesso è deciso da una delibera che lo modifica dall’oggi al domani, con la stessa facilità con cui si modifica l’orario di lavoro di un precario, o si decide se dargli una nuova scadenza fra due o sei mesi.

La superficialità è la stessa. È identica la maniera di incidere profondamente nelle vite delle persone, imponendo loro meccanismi da subire senza possibilità di modifica. Così la scelta di rendersi protagonista di ciò che attraversa la propria esistenza, dal lavoro alla gestione del tempo, al godimento dei servizi viene sempre più vissuta come anomala, come la scelta folle di chi “non sa come vanno le cose”.

Forse le parole che chi è rimasto in Molise si è sentito ripetere più spesso sono proprio queste: “così vanno le cose”. Vanno che il lavoro è contemporaneamente precario e nero, vanno che tutti girano in auto e devi farlo anche tu perché alternative pubbliche non ce ne sono, vanno che si può rendere flessibile ogni cosa ma non gli stereotipi, vanno che, ad esempio, i servizi per la disabilità sono a termine proprio come un contratto atipico: finiscono con l’obbligo scolastico.

Una regione precaria, dove sembra che la tecnica sia continuare a sorridere, proprio come quando si ha un contratto che scade a giorni. Riappropriarsi del diritto a sorridere solo quando si ha voglia e a pretendere ciò che è dovuto, anche se non è così che vanno le cose: potrebbe essere un buon inizio.

Marianna Cocca

Marianna è nata a Campobasso. Qui vive da 26 anni e qui si è laureata in Giurisprudenza. È disabile, fa pratica forense e sta decidendo cosa fare nella vita.