Da questa mattina il Centre Mendez France della Sorbona nel tredicesimo arrondissement, la struttura dove si tengono i corsi dei primi anni e dunque quella che accoglie il maggior numero di studenti, è occupato. La maggior parte di chi arriva in facoltà si infila direttamente nell’enorme anfiteatro N, dove si discute come continuare la protesta mentre gruppi di studenti bloccano gli ascensori perché i corsi non possano iniziare nemmeno nelle aule.
L’assemblea che ha deciso il blocco si stava mettendo male, un fronte trasversale formato dagli studenti dei sindacati di destra, qualche socialista, molti apolitici e molti “coscienziosi” stava concatenando interventi in cui si mettevano in luce i disagi per gli studenti e la sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica per quanto accade all’interno degli atenei. A dare la spallata in senso affermativo, però, arriva l’intervento di un tecnico di laboratorio: “tutto il personale della struttura ha votato lo sciopero ad oltranza, vogliamo paralizzare il paese”. Per pochi voti, vince l’occupazione.
La tensione è palpabile anche al centro: benché non ci fosse alcuna manifestazione prevista per oggi, alle dieci del mattino il Boulevard Saint Michel è completamente costeggiato da cellulari e poliziotti in tenuta anti-sommossa: strano, di solito a queste latitudini i cortei si svolgono nel pomeriggio, ma non è l’imprevedibilità delle inziative dei liceali organizzati ad attirare questo spiegamento di forze.
Tutti (ed il movimento molto più che le forze dell’ordine) temono l’arrivo dalla banlieue nord di gruppi di “casseurs”, teppisti che senza alcuna finalità politica e con un tempismo quantomeno sospetto, “inquinano” dal 2005 i movimenti sociali in Francia appena questi raggiungono un indiscusso successo. I “flic” con caschi, schinieri e scudi presidiano le “bocche” della RER B proprio nell’eventualità che i treni vomitino una massa urlante e spaccante che, qualunque fosse l’esito del raid, si sarebbe assicurata le prime pagine dei giornali. Sono molti a dire che le questure spesso “provocano” queste orde incontrollabili per chiunque.
Gli scontri avvenuti a Nanterre (Université Paris 10) hanno visto come protagonisti orde di liceali delle scuole circostanti che, prima di scontrarsi con la polizia, hanno addirittura intimidito gli studenti universitari. Una ragazza è rimasta ustionata dall’esplosione del serbatoio di uno scooter: i giornali, soprattutto all’estero, hanno dato molto più risalto a questo episodio che alla manifestazione oceanica che si sarebbe snodata al centro di Parigi di lì a qualche ora.
I ragazzi dei licei, in effetti, sono al centro di questa mobilitazione nel bene e nel male: questa volta i “medi” non seguono gli universitari, li trainano. Sono loro che hanno cominciato la protesta nelle scuole superiori e che sono riusciti a bloccare per qualche ora Place de la République, centro nevralgico del traffico parigino. Sono loro che, soprattutto, hanno collegato fin dalle prime ore la loro protesta contro la riforma della scuola con quella dei sindacati dei lavoratori contro la riforma delle pensioni: fa un certo effetto vedere ragazzini di 15 anni col le guance marchiate dal “60”: l’età, lontanissima dalla loro, in cui i lavoratori vogliono continuare ad andare in pensione, e non a 67 come vorrebbe il governo.
Come molti cartelli hanno fatto rilevare, Sarkozy è davvero riuscito ad ottenere la tanto auspicata collaborazione intergenerazionale: non nel mercato del lavoro ma nelle piazze e mai come in questi giorni lavoratori e studenti hanno sfilato (e lottato) insieme sulla base di parole d’ordine che rappresentano la causa di moltissimi cittadini. La riforma pensionistica, oltre all’innalzamento tutt’altro che trascurabile dell’età pensionabile, implica il passaggio dalla logica distributiva (per intenderci, quella vigente in Italia fino alle riforme Amato e Dini del ’92 e del ’95) a quella contributiva, assai più “individualista” oltre che dispendiosa per il lavoratore. Gli stessi inderogabili obblighi di “sostenibilità di bilancio” hanno imposto i soliti tagli indiscriminati al sistema scolastico.
Colpendo sia la base che il vertice della piramide anagrafica, il governo ha portato in piazza tre generazioni, rumorose, allegre, incazzate e soprattutto unite. Sono ormai tre settimane che, in tutto il paese, si svolgono due manifestazioni a settimana, il martedì ed il sabato pomeriggio.
I cortei si susseguono dunque a ritmo serrato in ogni città della Francia senza defezioni: i sindacati e le prefetture (tutto il mondo è paese) danno cifre assai lontane le une dalle altre ma, almeno dal punto di vista di Parigi, era dall’autunno 2005 e dall’imponente manifestazione contro il CPE (contratti di “entrata” nel mondo del lavoro che, de facto, garantivano una fonte di manodopera gratuita alle imprese) che non si vedeva tanta gente per le strade.
La macchina organizzativa è fornita principalmente dai sindacati (la CGT in perfetta concordia con le sigle “autonome” o “anarchiche”) ed anche i partiti di sinistra non si sono fatti trovare impreparati. Le sempiterne beghe elettoralistiche che dividono il PCF ed il “Front de Gauche” dai trotzkisti dell’NPA (Nouveau Parti Anticapitaliste) sono state opportunamente sepolte in nome della maggior efficacia organizzativa. Anche i socialisti avversano senza tentennamenti le “riforme” e partecipano alle iniziative.
Le politiche di taglio indiscriminato alla spesa pubblica, hanno insomma avuto l’effetto di compattare un fronte amplissimo, di classe che, anche se non diretto ad un immediato risultato elettorale (o forse proprio per quello) sta dimostrando una solidità ed una resistenza che il governo certamente non si aspettava di incontrare. Per ora ha paralizzato il paese, ora si tratta di resistere un minuto più dell’avversario.
Luca Di Mauro
Premetto un dato essenziale, l’immagine dei “casseurs” che viene fuori da quanto ho scritto sulle giornate parigine è certamente incompleta. Sono apparsi tra le mie righe per ciò che sono stati dal punto dei vista dei manifestanti, degli studenti e dei lavoratori scesi in piazza contro la riforma delle pensioni: un rischio incombente, una causa d’angoscia ed un “male” da esorcizzare.
Non era il luogo per un’analisi sociologica del fenomeno “casseurs” e dunque il quadro da me dato, più che riduttivo, ha il difetto di essere soggettivo. Tutti nei cortei sanno che nel caso “quelli” arrivino, il significato politico della manifestazione si perderà nel fumo dei lacrimogeni e nelle pagine dei giornali troppo impegnati a parlare delle violenze e nel recupero del consenso politico per il governo da parte di quei molti che sempre sono in bilico in questo tardo impero del neoliberismo.
Visto che tuttavia se ne parla, è d’uopo approfondire un po’ chi siano questi mitici “casseurs” poiché, se è verissimo che la loro violenza nasce dal disagio, è anche vero che lo stesso disagio ha saputo trovare espressioni molto più mature e, soprattutto, efficaci. Già, perché il primo errore da non commettere è quello di identificare i “casseurs” con le banlieues povere; è vero, sono luoghi di disagio, sono i più esposti al nuovo razzismo di Stato, sono la prova del fallimento del modello di integrazione (ma meglio sarebbe dire assimilazione) alla francese, ma i loro abitanti pur contestando con veemenza (ed anche con violenza) il sistema, hanno sempre saputo identificare il “nemico” con estrema precisione. Penso all’autunno 2005, quando due giovani “boeurs” (magrebini) inseguiti dalla polizia si rifugiarono in una cabina dell’alta tensione e vi morirono folgorati. I giovani che scesero nelle strade e si scontrarono con i flick sapevano bene di farlo contro una violenza di Stato ed un razzismo che negava la loro identità.
Il “casseur” invece, che pure da quelle stesse banlieues proviene, cerca lo scontro per un generico senso di avversione allo Stato senza minimamente porsi il problema di come incanalare la propria rabbia verso fini anche solo basilarmente “politici”. In questo senso mi capita spesso, per descrivere la differenza, di parlare dell’occupazione della sede storica della Sorbona nel 2006: furono gli studenti in lotta a dover formare cordoni per impedire che i “casseurs” (introdottisi nell’edificio) dessero fuoco ad una biblioteca che, oltre a contenere volumi dal valore storico inestimabile, rappresenta una risorsa insostituibile per tutta la comunità degli studiosi che, con quella occupazione, stava proprio difendendo il suo diritto a vedere il proprio lavoro riconosciuto e valorizzato.
Un altro mito che va subito sfatato è quello della “tenuta stagna” delle banlieues e dell’irragiungibilità di Parigi per chi le abita. Chi arriva nel centro per darsi alle violenze in occasione dei “periodi caldi” agisce in un ambiente che conosce bene. I quartieri turistici e commerciali sono infatti lo sfondo stabile dei pomeriggi di moltissimi “banlieusards” che stazionano nei fast food e nei corridoi dei centri commerciali.
E’ ovvio ed innegabile che i “casseurs” vengano dalle banlieues e che la loro situazione personale è quasi sempre estremamente disagiata, ma ciò non toglie che la loro violenza sia completamente apolitica (nel senso più deteriore del termine) e che il tempismo quantomeno sospetto con cui queste orde si scatenano lascia per lo meno immaginare una regia sapiente che contribuisca ai loro spostamenti ed alle loro iniziative.
Se un paragone con l’Italia va cercato, dunque, non è certamente con chi a Terzigno difende giorno e notte il proprio diritto a vivere in un ambiente salubre, ma con i gruppi di “ultras” che, anch’esse per lo più composte da sottoproletari disagiati, difendono il proprio diritto alla passione calcistica tramite la violenza indiscriminata. Il paragone è assai meno teorico di quanto possa sembrare: la tifoseria violenta del PSG è composta in grandissima parte dalle stesse persone (ma ancora una volta, la diversa ripartizione in francia del tifo sportivo meriterebbe un post a sé stante).
Per concludere, mi sembra superfluo precisare che in quanto scritto non vi è alcun giudizio etico (“casseurs cattivi”), ma sarebbe miope e sciocco non riconoscere, accecati dall’origine sottoproletaria di moltissimi tra essi, che oggi queste orde rappresentano una forza antipolitica che, più o meno sapientemente manovrata, agisce in direzione contraria a quella del movimento democratico e progressista.
Intervengo sul blog per provare a rendere pubblica una riflessione che l’ottimo report di Luca mi ha suscitato e che mi sembrava poco utile mantenere interna ai soliti ambiti: mi riferisco alla rappresentazione che Luca ci offre dei cosiddetti “violenti”, i “casseurs”. Credo sinceramente che questo sia un modo eccessivamente semplicistico e superficiale di affrontare la cosa. Innanzitutto la definizione di casseurs mi lascia piuttosto perplesso: chi sono i “violenti”, gli “sfasciatori”? Alieni venuti dallo spazio che si dedicano essenzialmente alla rottura delle vetrine? Al di là della battuta, non mi convince una definizione basata su un comportamento contingente, come se vicino agli “sfasciatori” potessimo mettere i “passeggiatori” e considerare questa una categoria analitica. Mi sembra scontato dire che, fuori da queste manifestazioni, coloro che vengono identificati come casseurs abbiano una identità più complessa: lavorano, studiano, sono disoccupati, pushers, fannulloni, intellettuali? è evidente che la categoria non soddisfa. Se a questa aggiungiamo la provenienza della maggior parte dei cd. “casseurs” dalle banlieues francesi, già incominciamo a capire qualcosa in più, dal momento che sappiamo che nelle banlieues abitano proletar* e sottoproletar*, immigrat*, francesi di origine immigrata…insomma, non propriamente l’alta borghesia! Sappiamo anche – e lo verifichiamo nelle corrispondenti periferie-ghetto italiane- che la vità in questi agglomerati urbani non è propriamente idilliaca, ma è segnata da sfruttamento, emarginazione sociale, razzismo e discriminazioni di diverso genere. Il quadro a questo punto è più chiaro: ampi settori di proletariato e sottoproletariato marginalizzato, in Francia, si “palesano” in occasione di ampie manifestazioni nazionali attraverso la violenza come mezzo di comunicazione. Al loro interno ci sono infiltrati? è estremamente probabile. Gli episodi di violenza spesso sono controproducenti perchè distolgono l’attenzione dal nodo politico e allontanano dalle piazze cittadin* intimorit*? Possibilissimo. Ma possiamo liquidare la questione come un affare di infiltrazioni che fanno il gioco della controparte? Credo che ci serva a poco.
Ciò su cui dovremmo iniziare a ragionare è il fatto che, nei nostri paesi a capitalismo avanzato, quote sempre maggiori di popolazione, emarginate e ghettizzate pur essendo tutt’altro che marginali all’interno del sistema produttivo, conoscono la violenza come unica o prioritaria forma di relazione con lo Stato, o meglio DELLO Stato contro di loro. Violenza che parte dall’esclusione, dalla straripante presenza poliziesca sui territori, dalla chiusura ermetica della comunicazione col resto delle città, fino ad arrivare alle manganellate, agli arresti indiscriminati, agli omicidi commessi da coloro che effettivamente esercitano la violenza per mestiere, e cioè le forze dell’ordine. Il nostro problema è capire che per tantissime persone non c’è altra possibilità espressiva della vita violenta cui sono condannati; ragionare sul fatto che sempre più persone non hanno, nelle nostre “democrazie”, alcun tipo di possibilità di espressione politica, sempre più spesso privilegio di una parte della società (nel caso in oggetto di persone europee, bianche, francofone); riflettere infine sul fatto che anche le manifestazioni d’opposizione rischiano di risentire di un razzismo di fondo, per quanto inconsapevole e “democratico”.
In questi giorni a Terzigno e a Boscoreale (vicino Napoli, non a Parigi) comunità intere resistono con ogni mezzo alla scelta deliberata di ucciderli col veleno della discarica più grande d’Europa; ogni notte la polizia è impegnata in scontri con la popolazione, ed è questa l’unica forma di relazione tra istituzioni e cittadinanza. Che senso ha, in un contesto del genere, liquidare il problema parlando genericamente di “violenti”? L’unica utilità è quella della controparte, che usa classicamente la separazione tra “buoni” e “cattivi” per indebolire tutto il movimento.
Non credo che dobbiamo cercare fughe assolutorie in un giustificazionismo sociologico da quattro soldi; penso sia però molto più utile andare al di là delle inutili categorie imposte dalla comunicazione mainstream, spesso fatte di parole senza significato, e provare ad andare al fondo delle questioni, per capire ciò che è un nostro problema (la rappresentanza politica degli/lle oppressi/e) e ciò che non lo è (i “buoni” e i “cattivi”).
Spero che, confusione espositiva a parte, questa riflessione possa essere utile…