Introduzione – assioma
Per quanto numerosi e importanti siano i tentativi di resistere a una deriva razzista dell’opinione pubblica, del pensiero dominante, delle istituzioni ecc., non si può negare che ciascuno di noi subisca quotidianamente una squallida serie di messaggi discriminatori e violenti… nonché, direi, offensivi per la media intelligenza umana.
La presenza di migranti, di persone che vengono da altri paesi o meglio da altre “comunità”, o dei figli di chi ha creduto di trovare diverse, magari migliori, opportunità in nazioni così distanti da quelle di provenienza, sembra essere percepita come qualcosa di scomodo se non addirittura dannoso. Ma siamo sicuri che proprio il razzismo sia il problema principale? O, forse, non si tratta della punta di un iceberg fatto principalmente di sfruttamento?
Si può dare per scontato che gli stranieri, soprattutto se clandestini, permettono di diminuire il costo generale del lavoro. Un individuo che sfugge a un destino fatto di miseria per trovarne un altro fatto di disoccupazione, sarà disposto a entrare e uscire dal mercato del lavoro senza fare storie: nel senso che gli basterà lavorare il minimo necessario per la sua sopravvivenza e per mandare le rimesse a casa, e che sopporterà più facilmente periodi anche lunghi di disoccupazione senza alcuna garanzia. Inoltre, la difficoltà (impossibilità) di rivolgersi alle autorità che vigilano (o dovrebbero vigilare) sulla correttezza dei rapporti di lavoro, renderà un lavoratore migrante estremamente conveniente perché più malleabile alle condizioni dettate da chi la manodopera la compra.
In barba a una propaganda razzista volta per lo più a ridurre anche dal punto di vista culturale la possibilità per i/le migranti di uscire da una condizione di emarginazione, lo stato di clandestino/a permette di mantenere un buon numero di persone – spesso giovani – sulla soglia della disoccupazione. Il costo del lavoro può rimanere basso, spesso bassissimo, anche rispetto ai/le lavoratori/trici italiani/e1, grazie a quel meccanismo di concorrenza che si innesca ogniqualvolta aumenta la disoccupazione.
In breve: l’immigrazione – meglio se clandestina – è richiesta, entro quei limiti che permettono di assorbirla nei numeri e nelle modalità richieste dal mercato del lavoro, perché permette di risparmiare sul costo della manodopera; allo stesso tempo, la lesione se non l’abolizione di fondamentali diritti dei lavoratori regolarizzati e contrattualizzati, l’introduzione sempre più selvaggia del precariato, la deregolamentazione generale del mercato del lavoro e della contrattazione, rispondono esattamente allo stesso bisogno per quelli che al tempo di Marx si chiamavano padroni.
In questo contesto, lo sciopero dei lavoratori migranti del primo marzo dell’anno scorso è stato sicuramente un momento importante. Innanzitutto, perché ha lanciato un appuntamento e una scadenza per la quale lavorare e prepararsi; inoltre, perché la questione della migrazione e della libertà di movimento è andata aldilà della mera questione “umanitaria”, riconnettendo il problema dell’immigrazione a quello del lavoro, del lavoro “regolare”, come di quello precario e non contrattualizzato…
In questo modo i migranti sono venuti fuori per quello che sono: manodopera a basso costo che rivendica condizioni di vita dignitose come tutti i cittadini (italiani e no) che lavorano, opponendosi con forza a quella retorica stupida e strumentale che vede il migrante come un pericoloso concorrente per il lavoratore, diciamo, autoctono…
Insegnar(si) a lottare, osare vincere
Fatta questa premessa, però, bisogna sciogliere un equivoco: sembra, infatti, che le risposte migliori da dare in questi casi altro non siano che integrazione, educazione, accoglienza… come se fossero dei mantra che magicamente riescono a lavarci la coscienza. Ma accogliere qualcuno perché estraneo, oppure pretendere che qualcuno si educhi secondo i principi di qualcun altro, si integri o si lasci assorbire culturalmente (e perché no civilizzare) da un paese ospitante, rischia di diventare solo l’aspetto più accettabile, meno sporco, della discriminazione e del razzismo. Al contrario, avere a che fare con culture diverse che presentano non poche difficoltà di comunicazione, è un’operazione che dovrebbe mettere in discussione il principio secondo cui una delle due culture sarebbe quella alla quale adeguarsi.
Si è posto spesso il problema di insegnare la lingua italiana o l’educazione civica o l’informatica per mettere in condizione, si dice, chi viene da un altro paese di adeguarsi in maniera più semplice e veloce all’italian way of life… Ma come si può dare un valore politico a questo tipo di attività? Se per valore politico si intende la possibilità di costruire lotte, vertenze, o iniziative che puntino ad avviare un discorso di emancipazione di uno o più soggetti sociali, allora la scuola d’italiano altro non è se non uno spazio per confrontarsi sulla reale possibilità di rivendicare diritti.
Quello che molti insegnanti, operatori sociali o semplici militanti (termine più completo dell’abusato e generico volontari) interessati alla questione stanno cercando di fare a Napoli è proprio questo: intraprendere un percorso di insegnamento della lingua italiana che punti principalmente a coinvolgere i cittadini (che lo siano o meno da un punto di vista giuridico, poco importa) stranieri e a prendere una coscienza collettiva dei loro – anzi dei nostri – problemi e diritti2.
Sgombro il campo ad un equivoco e cerco di prevedere un’obiezione: intraprendere un percorso che ponga come proprio obiettivo quello di provare a confrontarsi con qualcuno che non condivide il nostro livello di conoscenza di un posto o di determinate situazioni, non significa imporre il proprio punto di vista. Il fatto che ci sia qualcuno che “insegna” la lingua italiana e qualcun altro che la “impara”, non deve riproporre un ruolo di potere dato dalla diversa quantità di conoscenza.
Insegnare la lingua italiana, infatti, non serve a favorire una non meglio precisata integrazione, che diventa un concetto vuoto a cui ciascuno può dare il significato e il senso che preferisce, magari ricadendo spesso e volentieri in una logica ugualmente discriminatoria; semmai, serve a offrire, a chi viene in questo paese, uno strumento in più di difesa e di rivendicazione. Ma soprattutto, la lezione di italiano deve essere la spinta per partecipare ad uno spazio politico in cui, invece di cercare che cosa ci separa e – eventualmente – smussare le differenze, si tenta di comprendere in che misura i problemi di emarginazione, esclusione, precarietà siano del tutto condivisibili fra chi “insegna” e chi “impara”, e in che misura sia possibile costruire un comune percorso di battaglia politica, che porti fuori dai ruoli scolastici di docenti e discenti, perché prescinde – nel prendere le decisioni politiche – da quanto si conosca la lingua di un paese ospitante ma decisamente poco ospitale.
Gli inconvenienti
Se sulla carta – a patto che si condividano certi presupposti – il discorso funziona, non si possono nascondere dei problemi e delle sfide importanti.
Innanzitutto è vero che spesso, se non sempre, ci si trova ad avere a che fare con retaggi culturali estremamente chiusi e pesanti. Questo discorso, però, va del tutto rovesciato, o meglio condiviso: in linea generale ogni cultura può presentarsi come un sistema chiuso, pesante e arretrato e la cultura occidentale non ha da invidiare niente a nessuno quanto a sessismo, razzismo, integralismo religioso.
L’elenco degli esempi sarebbe lungo e doloroso ma ci si potrebbe cominciare a chiedere se considerare il corpo di una donna3 come un oggetto sessuale sia così diverso da impedire alla propria moglie di mostrarsi in pubblico se non coperta da un burqua… magari proprio perché considerata un possibile oggetto sessuale4… Dunque, il problema della liberazione da certi “retaggi” è un problema che riguarda tutti quelli che per colpa o per sfortuna appartengono e condividono un determinato sistema culturale.
Il problema reale, invece, quello che si risolve con una pratica e un lavoro di insegnamento continuativo e programmato, è rappresentato dalla difficoltà di insegnare la lingua italiana anche a chi non ha avuto alcun percorso di scolarizzazione, e trova non poche difficoltà nell’avere a che fare con l’apprendimento di qualcosa che non si vede e non si tocca, come una lingua e una grammatica straniera.
Loro l’attenzione non te la regalano; non si può credere di ottenerla “semplicemente” rendendo le lezioni più interessanti o accattivanti; l’unico modo, credo/iamo, è coinvolgerli nelle attività della scuola (non importa in che lingua vengano svolte), nelle cene sociali e nelle assemblee politiche, facendo in modo che in loro, così come in tutti, nasca il bisogno di comunicare in una maniera comprensibile attraverso una lingua comune che – in questo caso – può essere l’italiano.
L’altro inconveniente, su cui è difficile intervenire, è la difficoltà di garantire una partecipazione continuativa alle attività della scuola da parte di chi lavora saltuariamente o è costretto a coprire turni imprevedibili e lunghi, o è impegnato tutti i giorni tranne la domenica (è il caso per esempio dei/lle migranti occupati/e nei lavori domestici e di cura). È difficile intervenire su quello che è la diretta conseguenza di un mercato del lavoro sempre più selvaggio e disumano. Anche rispetto a questo, però, affiancare ai corsi e alle lezioni appuntamenti “politici” o iniziative pubbliche, più circostanziate dà la possibilità di recuperare la partecipazione di chi non può garantire la continuità, ma – magari – può trovare meno difficoltà rispetto a una frequentazione sporadica.
In breve, questo ragionamento non esprime altro se non il tentativo, da parte di un collettivo politico che si occupa di migrazioni e di insegnamento della lingua italiana, di costruire una mobilitazione unitaria che veda nel primo marzo un appuntamento importante, che in generale si raccolga attorno a tutti i soggetti deboli della società cercando di intercettarli nonostante le oggettive difficoltà, e che ponga con forza il problema del razzismo, unito a quello dello sfruttamento del lavoro in tutte le sue forme.
La conclusione?
Questa esperienza – ancora in costruzione – è resa possibile principalmente dal fatto che in una metropoli – che in questo caso è Napoli – il soggetto in questione è estremamente raccolto e individuabile.
In Molise, se non mi sono fatto un’idea sbagliata, il discorso è piuttosto diverso. Credo che i migranti costituiscano un soggetto meno concentrato, spalmato su tutto il territorio regionale, e non so fino a che punto sedentario o legato ai ritmi dei lavori stagionali. Allo stesso tempo, il fatto che Campobasso sia stata una di quelle città che l’anno scorso ha risposto all’appuntamento del primo marzo, lascia pensare che un lavoro di analisi in merito sia stato fatto e che ci siano tutti i presupposti per riproporre e far crescere questo momento di lotta.
Inoltre, non stupirebbe, data l’offerta di lavoro stagionale nel basso Molise, sapere di persone che da Napoli si spostano temporaneamente tra Foggia, Termoli, Larino o Campobasso. In questo caso, offrirgli dei punti di riferimento nella metropoli come nella “provincia” potrebbe essere un aspetto importante e produttivo di una attività politica di lunga durata
Potrebbe succedere che anche rispetto alla questione dei migranti il Molise venga fuori con forza per quello che è: una terra di passaggio, capace di sviluppare connessioni con esperienze diverse e (non tanto) lontane, e nella quale le persone siano capaci di mettere in piedi duraturi percorsi di lotta e di emancipazione attraverso un lavoro politico sempre più costante e strutturato.
Roberto Evangelista “Squolapopolareditaliano” – Napoli
1La divisione fra manodopera migrante e manodopera italiana è una distinzione fuorviante. D’ora in poi sarà abbandonata in favore di quella – più reale – fra lavoratore contrattualizzato e lavoratore non contrattualizzato.
2Mi riferisco in particolare alla nascente esperienza della Squolapopolareditaliano di Napoli. Inutile specificare, comunque, che il discorso vale a prescindere da questa singola esperienza.
3Mi riferisco al corpo femminile per ragioni di semplicità rispetto all’esempio, ma va da sé che il discorso è estendibile al di là della caratterizzazione sessuale.
4Un altro esempio da che vale la pena menzionare è l’infame campagna denigratoria di due o tre anni fa, che cercava di dipingere i cittadini rumeni come un popolo di stupratori genetici, dimenticando ad arte l’enorme percentuale di violenze domestiche praticate all’interno degli italianissimi nuclei familiari.
si immagino sia legato soprattutto al lavoro di cura… il che rende difficilissimo, per esempio, per ** stranier* frequentare una scuola, considerando che spesso sono impegnati tutti i giorni… il lavoro di cura è davvero un aspetto complesso: nonostante è quello che in teoria ti metterebbe a stretto contatto con la quotidianità del paese in cui lavori, allo stesso tempo ti isola moltissimo… per non parlare poi di quanto risponda all’esigenza di allegerire lo stato sociale sopperendo ai servizi pubblici… ma sto andando di nuovo fuori traccia, perdonami!
comunque questo per dire che le persone legate al lavoro di cura (in gran parte donne, ma non sempre…) è estremamente difficile da “intercettare”.
Riguardo l’immigrazione in Molise un dato interessante è quello della preponderante presenza femminile, a differenza della media nazionale che vede una sostanziale equivalenza numerica dei due sessi.