Piccolo vademecum sui provvedimenti in materia di immigrazione
Il Primo Marzo si avvicina e può essere utile ripercorrere velocemente le più recenti tappe della legislazione in materia di immigrazione.
Tutto comincia con due nomi noti e rassicuranti: Livia Turco e Giorgio Napolitano. La legge che porta il loro nome risale al 1998 e di fatto avvia il processo di istituzione del reato di clandestinità.
Attraverso il vergognoso strumento dei Centri di Permanenza Temporanea, infatti, si stabiliva che gli stranieri sprovvisti di documenti o di permesso di soggiorno venissero detenuti in veri e propri lager, caratterizzati dal trattamento disumano riservato ai loro ospiti coatti. Mai successo prima di allora, questa pratica ormai viene considerata del tutto normale; questi centri sono praticamente dei posti nei quali non esiste alcuna forma di controllo o di garanzia, dove i migranti vengono esposti ad ogni tipo di violenza e umiliazione (anche da parte delle forze di polizia), oltre che costretti a vivere in condizioni igienico-sanitarie vergognose, senza alcuna possibilità di denunciare alcunché. Va indubbiamente riconosciuto ai legislatori di aver avviato un virtuoso processo di messa in sicurezza dei territori e delle frontiere, che ha avuto in Bossi e Fini dei degni successori.
La legge Bossi-Fini del 2002 segna un ulteriore passo in avanti. Questa legge non cambia l’impianto generale della Turco-Napolitano, ma ne restringe alcune applicazioni. Il permesso di soggiorno dal 2002 può essere rilasciato solo se si dimostra di avere già un lavoro in Italia. Va da sé che l’assurdità di questo provvedimento condanna alla clandestinità un numero enorme di migranti, che per la stragrande maggioranza vengono in Italia per cercare lavoro. Inoltre, vengono inasprite le misure repressive: il tempo di permanenza nei lager di Stato (ovvero nei CPT) viene prolungato fino a 60 giorni, e vengono ampliati i margini per ricorrere a questo tipo di detenzione nei confronti dei migranti; viene introdotta la pratica di immediata espulsione per ogni straniero che venga trovato sprovvisto di documenti e di permesso di soggiorno; e last but not least, viene consentita la possibilità di sottoscrivere accordi bilaterali fra Italia e paesi limitrofi per rendere possibili i respingimenti delle navi cariche di migranti ed evitare che queste navi attracchino sul suolo italiano, costringendo una massa enorme di uomini a ripetere un viaggio estremamente costoso dal punto di vista economico e umano perché fatto di torture, prigioni, umiliazioni e non di rado morti violente e atroci.
Non è finita: l’uomo della provvidenza, Bobo Maroni, a dispetto del suo innocuo soprannome, vara, in una calda giornata di fine primavera del 2009, il cosiddetto “pacchetto sicurezza”: una serie di norme volte a rendere ancora più blindati i nostri territori e a permettere una sempre più forte repressione nei luoghi pubblici. In materia di immigrazione il “merito” di questo pacchetto è quello di istituire – fuori da ogni ipocrisia, e una volta per tutte – il reato di clandestinità. Giù la maschera: se sei uno straniero e non sei in regola con i documenti, sei un clandestino, e questo basta per giudicarti penalmente perseguibile. Criminalizzare la situazione in cui si trova un individuo è un assurdo: tanto per dirne una, infatti, la situazione in questione è determinata dalla legislazione razzista di uno Stato e non dalla scelta della persona a cui viene contestato il reato. Fra le altre cose, il pacchetto sicurezza aumenta ulteriormente a 180 giorni il tempo di permanenza nei CPT (che ora si chiamano CIE, ovvero Centri di Identificazione ed Espulsione).
Ora, di fronte a questo continuo cadere nel baratro del razzismo, le ultime novità sembrano scomparire. Mi riferisco al decreto Maroni-Gelmini, quello che istituisce l’obbligo di una verifica di lingua italiana prima di ricevere il permesso di soggiorno, e all’Accordo di Integrazione previsto dallo stesso pacchetto sicurezza, che prevede una vera e propria classifica a punti. A seconda di quanto un migrante rispetti una serie di regole, è previsto un punteggio sul permesso di soggiorno: se ha un regolare contratto di affitto; se ha una minima conoscenza della lingua italiana; se è iscritto al servizio sanitario; se conosce le cosiddette “regole del vivere civile” (sic)… Il senso di questi ultimi provvedimenti è subordinare la concessione del permesso di soggiorno solo a quelle persone che manifestano evidente intenzione e soprattutto possibilità di integrarsi nella società occidentale; di assumerne gli stili di vita e di non metterla in discussione. Ovviamente, quanto più i migranti provengano da paesi distanti chilometricamente e culturalmente, tanto più sarà difficile rispettare questo tipo di criterio. Chi proviene da paesi dove non esiste scolarizzazione, o dove non sia possibile (a meno di appartenere a un certo ceto sociale) assumere o anche solo conoscere le abitudini di un Paese europeo (quelle regole del vivere (in)civile di cui si deve dimostrare conoscenza) e risulta così socialmente “non-addomesticabile”, è fondamentalmente condannato a rimanere in uno stato di clandestinità.
La discriminazione sulla base delle condizioni lavorative è ormai perfettamente riuscita, e si è passati così alla vera e propria – e sancita per decreto – discriminazione culturale.
Ottenere il permesso di soggiorno è sempre più complicato, ed è sempre più difficile, per qualcuno che arrivi nella fortezza Europa, ottenere quelle condizioni minime di serenità e sicurezza necessarie per organizzare la propria vita in un Paese straniero. Gli ultimi provvedimenti coronano un processo compiuto a tappe forzate, che ha il solo scopo di prolungare sempre di più la condizione di clandestinità, offrendo così la possibilità di avere un numero enorme di manodopera a basso costo e ricattabile, per la felicità di imprenditori e caporali. Eh già, perché la clandestinità è un affare milionario…
L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, dove l’edilizia, l’industria alimentare, e l’artigianato imprenditoriale hanno bisogno di manodopera sempre più sfruttabile a costi sempre più bassi; niente di meglio che fare in modo che i soggetti sociali più deboli (fra cui ovviamente i migranti) prolunghino quanto più possibile uno stato di precarietà e di clandestinità. La discriminazione culturale portata avanti da questo governo è l’altra faccia di una medaglia che ha lo sfruttamento da un lato e il razzismo dall’altro. Su qualunque cosa si scommetta, il risultato sarà sempre la violenza di uno Stato repressivo.
Per questo l’appuntamento del primo Marzo diventa sempre più imprescindibile, contro ogni discriminazione e contro ogni forma di sfruttamento, di qualunque colore sia la nostra pelle o qualunque parte del mondo abbiamo deciso di occupare.