Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Luca Di Mauro, ricercatore presso la Sorbona di Parigi, sulle recenti proteste contro il nucleare in Francia. In barba a chi indica i cugini d’oltralpe come modello da seguire per l’approvvigionamento energetico, molte/i francesi non ne vogliono più sapere di nucleare…evidentemente, per quanto lo spaccino per pulito e sicuro, loro non si sentono tanto sicuri…
Pubblichiamo quest’articolo mentre i nostri caccia bombardano la Libia per difendere la fetta italiana di petrolio e gas; i caccia francesi la bombardano per accaparrarsi un’altra fonte di energia; le libiche e i libici muoiono, pagando loro il prezzo della nostra benzina; il governo taglia gli incentivi alle energie “rinnovabili”; noi continuiamo a pensare che la soluzione non sia nel trovare un’alternativa energetica, ma un’alternativa di società. Nell’attesa, nella costruzione, nella lotta per il cambiamento, non stare con le mani in mano: IL 12 GIUGNO VAI INSIEME A QUATTRO AMICHE/I A VOTARE Sì AI REFERENDUM PER LA DIFESA DELL’ACQUA PUBBLICA E CONTRO IL NUCLEARE! Poi, puoi pure andare al mare (ma se sei molisana/o puoi pure andare a casa, tanto lo sai già che farà freddo…)!
Domenica pomeriggio, è la prima volta che mi succede: un fermo ad personam. Sul lato destro del Pont de la Concorde sono schierati tre poliziotti in tenuta antisommossa, sorvegliano il marciapiede ma lasciano perfettamente libera la carreggiata. Forse è il mio aguzzare lo sguardo in direzione dell’Assemblea Nazionale a tradirmi, la manifestazione è stata convocata per le tre (ho ricevuto un messaggio dal gruppo parigino di Greenpeace) ma di assembramenti davanti al colonnato neoclassico nemmeno l’ombra. L’agente mi si avvicina, con l’aria di chi voglia aiutare un turista perduto e mi chiede gentilissimo se sto cercando la manifestazione, “Oui, merci” rispondo ingenuo. “Allora di qui non può passare, è assolutamente vietato avvicinarsi al Parlamento”… anche se visibilmente non lo è per i turisti e privati passeggiatori che affluiscono in massa.
Per fortuna i ponti sulla Senna sono vicini l’uno all’altro, facendo finta di niente mi avvio verso il prossimo e mi rendo conto che varî individui dall’aspetto più o meno militante hanno avuto la mia stessa esperienza o l’hanno vista ed hanno preso la mia strada. Attraversato il fiume, addirittura un gruppo con cartelli segnala a chi arriva il luogo dell’assembramento: la piccola Place du Président Hérriot sul lato dell’enorme edificio settecentesco che ospita la camera.
I manifestanti non sono moltissimi (coprono appena i pochi metri quadri della piazzetta) e non solo per lo sbarramento dei CRS: qui in Francia il fronte nuclearista ha un solidissimo argomento da far valere nei confronti dell’opinione pubblica, bollette ultraleggere che ovviamente rendono la causa ambientalista scomoda da abbracciare.
Sono però presenti tutte le sigle della sinistra “radicale” (il PS è ovviamente “realista”, a volte apertamente “nuclearista” e, nel resto del tempo, criptico sull’argomento) e dell’associazionismo ecologista, su una panchina circondata da bandiere verdi, bordeaux (il “Parti de Gauche”) e rosse, gli oratori dei varî gruppi si alternano al microfono.
Abituato ad un linguaggio antinuclearista italiano, e dunque “di prevenzione”, i discorsi dei francesi mi colpiscono subito per un dato: in questi giorni la loro paura è concreta e palpabile. I presenti, come detto, non sono molti, ma abbondano i bambini con maschere antigas di cartapesta e le spillette col sole che ride (rosso su sfondo giallo) e la scritta “Nucleare? No grazie!” in tutte le lingue dell’orbe decorano poncho, giubbotti di lana di pensionati, cappotti borghesi ed eskimo stradaioli. Sono presenti, con banda tricolore sul soprabito, i sindaci delle comunità che ospitano centrali e che mai come oggi temono per se stessi e per i loro amministrati.
Poco prima del mio arrivo, tre manifestanti avevano provato ad esporre uno striscione con su scritto “il nucleare uccide l’avvenire”, vengono arrestati e rilasciati solo un’ora dopo lo scioglimento della manifestazione.
Una constatazione mi colpisce quasi con violenza: il linguaggio pubblico, in Italia, ha costantemente bisogno di “eroi” che spesso diventano “martiri” (di solito si tratta dei “nostri ragazzi” che usano il mitra in maniera seriale in qualche remota plaga del pianeta), eppure in questi giorni ce ne sono alcuni che tutti si guardano bene dal nominare: i tecnici della centrale di Fukushima che stanno tentando di raffreddare il nocciolo. Sono i primi a sapere che probabilmente questo senso del dovere costerà loro la vita e che, nella migliore delle ipotesi, il loro sacrificio sarà servito a salvare migliaia di altre persone, eppure l’ipocrisia rassicurante del nostro piccolo paese li priva perfino di questo riconoscimento (di cui per fortuna non sentono, presumiamo, alcun bisogno). Perché anche nell’improbabile e fortunata ipotesi di un incidente “a danni zero” (sui “civili”) qualsiasi riparazione o emergenza in una centrale nucleare può costare la vita agli addetti ai lavori, chiamati a restare sul posto anche quando decine di migliaia di chilometri intorno a loro vengono evacuati e si prova addirittura l’angoscia insostenibile di sentir parlare di sé come di una vittima necessaria.
In un paese dove le centrali proliferano, sindacati, comunità cittadine e famiglie vedono questa ipotesi da incubo come tutt’altro che remota. Perché tutti, anche i favorevoli alle centrali, devono ammettere che il “nucleare a rischio zero” non esiste né, probabilmente, esisterà mai e che l’imponderabile, in questo campo, significa automaticamente tragedia.
Le centrali giapponesi erano, ovviamente, progettate a regola d’arte, gli ingegneri avevano ovviamente previsto un terremoto di quella magnitudo… ma non l’onda anomala che poi ne è scaturita (ma… un attimo… “tsunami” non è una parola giapponese? Siamo sicuri che non potevano prevederlo?) Nessuno può, umanamente, rimproverarli della svista, solo che una tale distrazione potrebbe causare una catastrofe.
Ed è per questo che il nucleare, in qualsiasi paese, è una questione di democrazia. Uno stato può, legittimamente, scegliere di perseguire una politica energetica con indubbi vantaggi economici nell’immediato (ma con altrettanto indubbi e pesantissimi punti interrogativi per il futuro), ma una decisione del genere non può essere lasciata ai soli “tecnici” né ai soli politici. E’ l’intera comunità che ha il diritto/dovere di esprimersi proprio perché, se malauguratamente qualcosa andasse storto, sarebbe l’intera collettività a pagare il prezzo più alto.
A ben guardare, in realtà, anche una decisione di ambito nazionale è ingiusta e riduttiva, non solo perché radiazioni e nubi tossiche non si fermano alla frontiera ma perché anche la normale amministrazione della produzione dell’energia nucleare contribuisce allo “sviluppo del sottosviluppo” planetario.
Si può dire infatti che ogni tappa del processo di produzione dell’energia atomica produca scorie dannosissime per l’ambiente e per le popolazioni che, per di più hanno bisogno di secoli (o centinaia di migliaia di anni per diventare innocue). Le più grandi miniere d’uranio si trovano, a volte, in Stati (come il Niger o il Kazakhstan) che non garantiscono nessuna tutela né ai lavoratori né alle popolazioni limitrofe, con conseguenti tassi abnormi di cancri, leucemie, malformazioni e quant’altro. Poi viene il processo di arricchimento del minerale, esso serve a produrre sia le armi nucleari che il carburante per le centrali (MAI una sola delle due cose). In seguito ci sono le “scorie” in senso classico: è ormai assodata l’inutilità del nasconderli sotto terra, movimenti tellurici o infiltrazioni d’acqua rappresentano una spada di Damocle troppo affilata perfino per i dilettanti dell’atomo nostrani, non restano che gli Stati pattumiera del continente africano, ma farlo presente agli entusiasti del progresso, chissà come mai, non è considerato bon ton. Infine, ci sono i vapori radioattivi che anche una centrale perfettamente funzionante rilascia ogni giorno nell’atmosfera. In Francia i casi di leucemia infantile intorno a questo tipo di impianti raddoppiano rispetto alla media nazionale.
Anche sul piano dell’egoistico risparmio individuale, poi, non è tutto oro quello che luccica: ci si è resi conto che una centrale nucleare invecchia più rapidamente di un essere umano e, repetita juvant, non si tratta di un campo in cui ci si possa permettere di andare avanti con impianti obsoleti. Lo smaltimento dei vecchi stabilimenti, come prevedibile, è a carico delle comunità (a differenza dei dividendi delle stesse, ben inteso…) e la sola Gran Bretagna ha previsto un piano di ben 103 miliardi di euro per smantellare i 23 impianti ora in attività, tutto questo senza contare il costo (economico ed umano) della “sorveglianza” millenaria alle scorie.
In un paese dove il cittadino, sul medio periodo, perderebbe dei benefici economici fino alla completa sostituzione del nucleare con fonti rinnovabili la battaglia per lo smantellamento è molto lunga e difficile. L’Italia, per fortuna, ha una rendita di posizione ed è, di nuovo, chiamata a scegliere direttamente la via da seguire per il proprio futuro energetico.
E’ giunto il momento in cui perfino l’ “italiano medio” dovrà rendersi conto che un risparmio sulla bolletta dell’Enel non è un argomento capace di resistere a qualsiasi obiezione…