Genova G8. La memoria non si scrive sulla carta bollata.

Domani, 19 luglio 2012, è l’undicesimo anniversario dell’inizio della tre giorni di manifestazioni contro il vertice del G8 a Genova, 19  – 21 luglio 2001. All’epoca, avevo 18 anni.

Il 5 luglio scorso una sentenza della Cassazione ha stabilito la copevolezza di 25 tra funzionarie agenti della polizia che la notte del 21 luglio 2001, a manifestazioni finite, fecero irruzione in una ex scuola in cui dormivano 92 manifestanti italiani e stranieri, facendo 70 feriti, di cui tre gravissimi, e arrestando illegalmente 75 persone, che furono poi torturate nella caserma di Bolzaneto.Alcuni dei condannati perderanno il posto. Nessuno andrà in galera. Centinaia di loro colleghi, ugualmente responsabili di quello e di altri orrori avvenuti durante il G8 di Genova, non passeranno mai dall’aula di un tribunale.

Il 13 luglio, un’altra sentenza ha stabilito che dici manifestanti presi nel mucchio e accusati di atti di violenza contro le cose, in virtù di un articolo mai abrogato del vecchio codice penale fascista, dovranno stare in stare in galera per 10 o 15 anni ciascuno.

Che lo stato di diritto fosse morto e seppellito, l’avevo già capito a Genova, quando avevo appena 18 anni, e poi nei mesi seguenti, con il regime di eccezione, repressione e sorveglianza che si istaurò subito dopo gli attentati dell’11 settembre.

Ora dobbiamo fare di tutto per tirare fuori dalla galera i nostri compangi/e.

Ma guai a delegare alle carte bollate dei tribunali il compito di elaborare e trasmettere la memoria . Avevo in mente questo post da quando ho visto Diaz al cinema.

Avevo 18 anni nel 2001 quando sono andata a Genova a contestare il G8.

Dovevamo partire in una decina o forse più, poi i genitori, allarmati dalla campagna di terrore dei giornali, ritirarono il permesso a quasi tutti i nostri compagni di scuola, concedendogli al massimo di andare e tornare in giornata col pullman del 21 luglio, e così rimanemmo in tre, io e altri due del liceo scientifico, a partire il 18 luglio.

Eravamo troppo pochi e il treno speciale non lo fecero fermare a Termoli, dovemmo andare a Pescara. Ci mise una vita ad arrivare a Genova.

Sapevamo che stavamo per vivere un momento importante. Che a dispetto delle notizie assurde riportate dai giornali, delle bombe finte, dell’intimidazione e della militarizzazione totale della città, centinaia di migliaia di persone dalle provenienze più diverse – dagli anarchici agli scout, dai partiti di sinistra ai centri sociali alle femministe agli ambientalisti ai migranti ai nonviolenti radicali, dagli studenti agli operai ai pensionati – erano come noi in viaggio verso Genova, con in testa e nel cuore la convinzione che “un altro mondo e possibile”, e che stava a noi costruirlo.

Certo lo sapevamo che il clima era teso. Immaginavo che il 20, il giorno in cui si sarebbe tentato di entrare nella zona rossa, ci sarebbero potuti essere degli scontri, delle cariche, dei lacrimogeni. Sapevo che non dovevo mettere le lenti a contatto, e avevo i limoni nello zaino.

Immaginavo che avremmo anche potuto essere fermati. Per estrema precauzione, avevo il cellulare, comprato da mia madre apposta per l’occasione, con dentro il numero degli avvocati del Genova Social Forum.

Ma pensavo ancora di vivere in un paese più o meno democratico.

Mai avrei potuto immaginare che il corteo che voleva assediare la “zona rossa” venisse caricato anche prima della soglia della “zona gialla”, e che sarebbe stato caricato ancora e ancora, anche mentre tornava indietro. Mai potuto immaginare che i carabinieri avrebbero sparato a un ragazzo e poi impedito che fosse soccorso. Mai avrei potuto immaginare che avrebbero caricato con violenza anche maggiore del giorno prima un corteo di 300 mila persone che si muoveva su un percorso autorizzato (il corteo del 21, quello che le mamme dei nostri compagni avevano ritenuto più sicuro). Mai avrei potuto immaginare che a manifestazioni concluse avrebbe fatto irruzione in un dormitorio (la scuola Diaz) pestando a sangue quasi cento persone.

Per quelli e quelle che furono prese quella notte, il problema non fu avere il numero di un avvocato nel cellulare, ma sopravvivere alla tortura.

Ero su un binario della stazione di Genova Brignole insieme ad altri manifestanti sconvolti la sera del 21 luglio quando dalla radiolina di qualcuno abbiamo sentito in diretta la notizia dell’assalto alla scuola Diaz. Qualcuno mi chiamò preoccupato dal pullman, perché loro stavano tornando a Campobasso, ma io dovevo raggiungere un amico a Bologna e poi la mia famiglia in vacanza in trentino, e quindi stavo aspettando quel treno.

L’incubo non era ancora finito e superava ancora una volta ogni immaginazione, e noi eravamo lì sul quel binario, con quella radio che dava notizie assurde, con un massacro che si svolgeva a poca distanza da noi, ed era impossibile non provare insieme sollievo per non essere lì, per aver deciso di partire subito invece che fermarsi a dormire, e terrore per quello che poteva ancora succederci, e angoscia e senso di colpa per non poter fare niente per la gente che veniva massacrata nella scuola. Dal primo binario, non so quanti poliziotti in assetto antisommossa ci guardavano a vista, e anche se mi scappava la pipì, non pensai nemmeno per un secondo di allontanarmi dagli altri per andare a cercare un bagno.

Quando tornai al paese, la cosa che mi faceva più male era che le persone che incontravo pretendevano di essere loro a raccontare a me cosa fosse successo a Genova. Perchè loro avevano visto la tv, e la verità, si sa, è nella televisione. Nel migliore dei casi, mi parlavano dei black bloc, di questa minoranza che putroppo aveva rovinato la nostra giustissima manifestazione.

Non capivano e non volevano capire la totale sproporzione della violenza delle forze dell’ordine, e il fatto che si trattava di una violenza organizzata e premeditata. Non capivano e non volevano vedere la sproporzione fra dieci, venti o forse cinquanta individui che spaccano le vetrine rispetto al gigantesco schiermaneto di gente pagata, armata e addestrata dallo Stato che sistematicamente – e non per l’alzata di testa di uno o due reparti di ‘teste calde’ – infierisce per ore su manifestanti inermi, e le pozze di sangue, le urla, i gas urticanti cancerogeni, e i giornalisti, i medici e gli avvocati pestati come gli altri, le macchine fotografiche requisite, e il terrore di venire uccisi o torturati.

Guardavo i carabinieri del mio paese che bevevano il caffè al bar, guardavo il presidente della proloco, che di lavoro faceva il poliziotto, che preparava il baracchino delle salsicce per i festeggiamenti d’agosto, guardavo i miei compagni di classe delle medie che facevano il servizio militare nei carabinieri, e non potevo fare a meno di pensare che quella era tutta gente che a Genova, se solo glielo avessero ordinato, non avrebbe esitato a spaccarmi la faccia o a spararmi addosso. Anzi uno di questi miei compagni di scuola c’era stato davvero al G8 a Genova.

A distanza di 11 anni da quell’estate, sono andata a vedere Diaz . Credo che tutti dovrebbero vederlo.

In proposito sottoscrivo ogni parola del commento di Ida Dominijanni su Alias del 21 aprile. Il fatto che il film non faccia nomi è un merito, perché mostra che quell’orrore è ripetibile. Non è questione di questo o quell’agente, di questo o quel dirigente della polizia, di Fini o di Berlusconi (tra l’altro la gestione di Genova fu predisposta dal precedente governo di centro sinistra). E’ questione di un intero sistema. E’ questione a Genova lo stato di diritto è stato sospeso e se vogliono possono sospenderlo ancora.

Perché questo è stato a Genova: sfacciata sospensione dei più elementari diritti, del più basilare livello di decenza di un paese che si dice democratico, e non banalmente una pagina particolarmente dura dello scontro fra movimenti e repressione. Genova è stata un cambio di paradigma.

Sul manifesto del film c’è una frase tratta da un rapporto di Amnesty International: “La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”

Quanti di noi erano davvero coscienti di questo fatto prima di ri-vedere in questo film cose che avrebbero preferito dimenticare?

C’è un solo vero difetto nell’opera di Vicari, ed è che dipinge in modo completamente irrealistico il clima immediatamente precedente all’irruzione nella Diaz. Dopo l’uccisione di Carlo Giuliani e i pestaggi delle giornate del 20 e del 21, non credo che nessun attivista del Genova Social Forum fosse nello stato d’animo adatto per fare l’amore. E la moglie dell’anziano signore, salendo sul pullman, avrebbe salutato il marito deciso a passare ancora una notte a Genova con autentica angoscia, e non con quel sorriso mezzo preoccupato e quel bonario “stai attento”. Eravamo tutte e tutti traumatizzati già prima dell’irruzione alla scuola Diaz, molto più di quanto il film non lasci intendere. E certo un film non è tenuto a riprodurre fedelmente la realtà storica, ma per questo film, che per il resto riporta fedelmente persino nei dialoghi le testimonianze degli atti processuali, trasfigurare proprio questo aspetto della realtà è certamente un difetto.

Vedere Diaz non è piacevole. Starete male durante e dopo. Ma la memoria è anche la memoria impressa nei corpi, e questo film è un modo per aiutarci a portare il peso anche di quel tipo di memoria, che altrimenti rischia di restare, ancora a distanza di 11 anni, solo negli incubi di chi era lì.

 

Vedi anche:

Black bloc, documentario con le testimonianze dei sopravvissuti della Diaz

Sito del Genoa Social Forum (materiale d’archivio – il sito è stato chiuso nell’ottobre 2001)

Dossier e commenti sui processi di Genova a cura di Zic

Tutti i documentari e i materiali prodotti su Genova, dalla bibliografia della pagina di wikipedia “Fatti del G8 di Genova”