Femminicidio. Storia di una parola e di una lotta

In Italia la parola femminicidio è stata scoperta solo di recente, ed è già posta sotto attacco. In molti rivendicano l’insensatezza di usare un nuovo termine per definire ciò che una definizione ce l’ha già: omicidio.
Proviamo a chiarire che
femminicidio non identifica tutti gli omicidi di donne: se un pazzo scende in strada con un mitra e spara sulla folla, le donne uccise non saranno state vittime di femminicidio; se il pazzo entra in una Casa Antiviolenza e spara, la situazione, evidentemente, cambia.

Il termine femminicidio (o femmicidio o femicidio) è un neologismo usato per indicare la violenza posta in essere contro la donna “in quanto donna”, ovvero gli omicidi basati su discriminazioni di genere. Stiamo parlando delle donne uccise dai loro padri, dai loro ex-fidanzati, dai loro mariti e dai loro amanti. Stiamo parlando delle prostitute uccise dai loro sfruttatori e dai loro clienti. Stiamo parlando delle donne uccise dall’AIDS contratto dai loro partner sieropositivi che hanno deciso di tacere la propria malattia. Stiamo parlando delle donne stuprate e poi uccise durante le grandi guerre dagli eserciti nemici. Stiamo parlando del milione di donne uccise nella nostra storia perché ritenute streghe.
Ci riferiamo, perciò, a tutte le donne che sono state uccise perché sono state donne, semplicemente se stesse, non rientrando, a prescindere dal loro carattere, nel canone di donna che gli uomini e la società tutta (ahimè, comprese le donne) avevano stabilito per loro.

Il termine femminicidio, storicamente, proviene dalla lotta delle donne messicane di Ciudad Juarez.
Ciudad Juarez è una cittadina di un milione e mezzo di abitanti situata al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, in cui dal 1992 ad oggi sono state contante 4.500 giovani donne scomparse e più di 650 donne stuprate, torturate e poi uccise ed abbandonate ai margini del deserto.
Tutto questo è accaduto tra il silenzio delle istituzioni e delle forze dell’ordine, colluse con la criminalità organizzata ed il sistema patriarcale violento (che ad esempio non considerava reato lo stupro di una moglie da parte del marito, o non prevedeva pene per lo stupratore che avesse sposato la donna violentata).

Non tutti però sono rimasti a guardare in silenzio.. Un gruppo di madri, di donne, di femministe si è mobilitato per denunciare la situazione, ha dato un nome alla tragedia che ha vissuto, femminicidio, per rivendicare giustizia e cambiare realmente i rapporti di genere a Ciudad Juarez e in tutto il Messico.
“Ni una mas” è lo slogan con il quale queste donne hanno richiesto con tutta la loro rabbia e la loro forza che nessun’altra donna subisse quello che le loro figlie, sorelle, compagne hanno subito. “Ni una mas” sarebbe stata uccisa per il suo essere donna.
Le attiviste sono riuscite a far eleggere una di loro, Marcela Lagarde, parlamentare. Lei ha fatto costituire e presieduto una Commissione Speciale parlamentare sul femminicidio, che, per dieci anni, ha rielaborato le informazioni reperite presso varie istituzioni, verificando che l’85% dei femminicidi messicani avviene in casa per mano di parenti. E’ stato verificato che il 60% delle vittime di femminicidio aveva già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento. Marcela Lagarde, grazie all’appoggio e al lavoro delle sue compagne, è riuscita ad approvare una legge specifica contro il femminicidio ed ha introdotto questo reato all’interno del codice penale.

Quando si usa il termine femminicidio si fa riferimento a questa storia, la storia di queste donne, di questa lotta. Quando si dice che il termine femminicidio non ha senso si nega tutto questo, lo si svilisce e lo si offende.

Il lavoro a Ciudad Juarez, in ogni caso, non è certo finito. Le militanti femministe sono consapevoli che l’esistenza di norme contro il femminicidio non ha eliminato la violenza di genere. Una militane scortata a vita dalla polizia per il suo impegno femminista, Marisela Ortiz Escobedo, a proposito di un progetto in corso nelle scuole di Juarez, dichiara “Dobbiamo creare una cultura diversa per un futuro migliore e chi meglio dei figli delle donne assassinate può contribuire a ciò? Sappiamo che solo così, cambiando il contesto culturale, potremo un giorno scongiurare tutta questa violenza”

Dalle parole di Marisela si evince la necessità di guardare alla violenza di genere con occhi diversi. Basta immaginare le donne come le vittime indifese e fragili da controllare e proteggere come fossero animali in via d’estinzione! Basta proporre ronde notturne nei quartieri per controllare le ragazze, basta richiedere braccialetti elettronici con cui le donne vengono seguite tramite GPS, basta spray al peperoncino per ogni bella ragazza! Il problema della violenza sulle donne è la punta di un iceberg di piccole grandi discriminazioni sociali che le donne vivono ogni giorno.
Se il problema è sociale e culturale non è con l’inasprimento delle leggi che si risolverà.
Solo scardinando i rapporti di potere insiti nei nostri modelli culturali, ridisegnando le relazioni tra uomo e donna (costruendole in modo realmente paritetico) e progettando un nuovo modo di educare alla sessualità e all’affettività, si potrà raggiungere la tanto ambita parità di genere.

Ogni donna deve avere la possibilità reale di autodeterminarsi, senza ostacoli di natura culturale, economica o sociale, deve poter essere se stessa senza subire pressioni, poter vivere liberamente la propria sessualità, vedendo riconosciuti i proprio diritti, poter formare liberamente la propria sfera affettiva ed emotiva, decidere del suo corpo, senza influenze di carattere religioso o etico di qualunque tipo.
Nel processo storico che ha visto la donna subalterna e vittima è arrivato il momento di creare nuovi modi di vivere da donna.