“Accogliere” i migranti sbarcati a Lampedusa nel villaggio di prefabbricati di San Giuliano di Puglia, oggi rimasto disabitato perché finalmente i terremotati sono tornati tutti nelle loro case – cosa che, è bene sottolinearlo, non è avvenuta in altri paesi del cratere. Sembrerebbe una buona idea, per “dare accoglienza ai poveri immigrati”, per recuperare strutture altrimenti inutilizzate, per ripopolare un piccolo paese e ridargli vita. E infatti alcuni approvano incondizionatamente la proposta partorita dall’assessore regionale Petraroia.
Per fortuna, in questo clima di consenso quasi unanime e di intorpidimento della coscienza critica, si è levata anche qualche voce di dissenso. Italo di Sabato ha parlato del rischio che i migranti vengano impiegati nel lavoro nero nelle campagne circostanti, mentre Pax Christi si è detta contraria a questo tipo di “progetti faraonici di accoglienza, ad una forte concentrazione di persone, a una militarizzazione del luogo, a un trattarli come animali rinchiusi in un circo”.
Su questo blog abbiamo cercato fin dal 2011 di seguire la situazione dei richiedenti asilo fuggiti dalla Libia e di descrivere luci e ombre della gestione della cosiddetta “emergenza Nord Africa” nella nostra regione (ecco i nostri articoli sul tema). Anche noi abbiamo dubbi e riserve sulla proposta, e soprattutto riteniamo che se ne debbano precisare meglio alcuni aspetti, prima di approvarla incondizionatamente.
Innanzitutto, occorrerebbe domandare ai nostri tanto caritatevoli amministratori regionali che cosa sarà esattamente, o per meglio dire giuridicamente, il centro che si vorrebbe stanziare a San Giuliano di Puglia, e come verrebbe gestito. Nel profluvio di comunicazioni istituzionali sulla questione a firma dell’assessore Petraroia non c’è molta precisione in proposito. Ma non è un dettaglio di poco conto.
Si parla genericamente di accoglienza per i richiedenti asilo – quindi intanto non per tutt* i/le migranti, ma solo per chi viene da un paese talmente disastrato (in guerra, carestia o situazione umanitaria estremamente grave, o dove la persona sia a rischio di essere perseguitata politicamente) da poter aspirare a richiedere l’asilo. Per tutti gli altri, come sappiamo, nel nostro paese c’è un futuro di clandestinità forzata, di precarietà, di lavoro nero.
Anche i giornalisti fanno confusione, c’è chi parla di un CARA (Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo), chi della possibilità che alcuni comuni molisani partecipino al programma SPRAR (Servizio di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati). È bene sottolineare però che non si tratta proprio della stessa cosa.
Il CARA è una struttura dove le persone che hanno richiesto la protezione internazionale dovrebbero essere tenute per un massimo di 35 giorni, il tempo di procedere all’identificazione e di iniziare la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. Per adesso in Italia ce ne sono 8, tutti in non-luoghi come ex aree areoportuali, ex alberghi o villaggi vacanze, e ospitano tra le 100 e le 800 persone, per molto più tempo di quello previsto. Alcuni reportage e Repubblica ci parlano di centri che, di fatto, somigliano ai CIE: una grande concentrazione di persone, una libertà di movimento limitata di fatto dall’isolamento di queste strutture, assistenza che lascia molto a desiderare, la cui gestione è affidata a cooperative o privati, spesso non specializzati, che ricevono fino a 38 euro al giorno a persona. Così simili ai CIE che, a leggere la lista del ministero dell’interno, si scopre che spesso CIE e CARA si trovano negli stessi luoghi.
Secondo un rapporto a cura del CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati) pubblicato nell’Asylum Information Database i CARA sono spesso sovraffollati e “La qualità dell’assistenza varia a seconda delle strutture e a volte non raggiunge adeguati standard, specialmente per quanto riguarda l’assistenza legale e psicosociale; l’identificazione delle persone vulnerabili e la cura ad esse riservata è spesso inadeguata a causa dello scarso coordinamento tra i soggetti preposti all’assistenza, di un’incapacità di provvedere a un supporto legale e sociale adeguato così come del necessario supporto logistico. Infine, il monitoraggio delle condizioni di accoglienza da parte delle autorità competenti non è generalmente sistematico e spesso i reclami cadono nel vuoto” (lo trovate in inglese qui, traduzione nostra).
Lo SPRAR è invece una rete di enti locali che si offrono di avviare progetti di accoglienza per richiedenti asilo, che vanno oltre la semplice offerta di vitto e alloggio e prevedono una serie di servizi come: attività finalizzate alla conoscenza del territorio e all’effettivo accesso ai servizi locali, specie sanitari, corsi di italiano e istruzione degli adulti, interventi di informazione legale sulla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale e sui diritti e doveri dei beneficiari. Questi progetti hanno “l’obiettivo di accompagnare ogni singola persona accolta lungo un percorso di (ri)conquista della propria autonomia”; per questo sono anche previsti percorsi formativi e di riqualificazione professionale e misure per l’accesso alla casa. Poiché l’accoglienza prevede percorsi individuali, si tratta di progetti che coinvolgono ognuno poche decine di richiedenti asilo: questo favorisce anche il loro inserimento nelle comunità locali. Purtroppo anche questo sistema ha dei limiti, primo fra tutti la carenza di posti (circa 3000 posti a fronte di 34000 richieste di protezione internazionale registrate nel 2011), ma è l’unico che permette di garantire ai richiedenti asilo un insieme di diritti fondamentali, che sono fortemente a rischio nei CARA.
In questi giorni, commentando la proposta di Petraroia, molti hanno fatto riferimento al felice esempio del paesino calabrese di Riace, dove l’accoglienza dei richiedenti asilo ha permesso di ripopolare il paese, riavviare alcune attività economiche, recuperare edifici abbandonati. Ne avevamo parlato anche noi in tempi non sospetti, quando non andava di moda mostrarsi solidali con i migranti – il papa non era ancora andato a Lampedusa e non c’era una ministra dell’integrazione quotidianamente insultata dalla Lega.
Ma è abbastanza evidente fin da ora, senza conoscere i dettagli del progetto di San Giuliano, che i due casi non sono paragonabili. Per San Giuliano si è parlato di alloggiare 800 persone nel villaggio di prefabbricati. A Riace, che è un progetto SPRAR, le persone coinvolte sono in un numero ridotto, abitano nel cuore del paese e non in un luogo separato, e questo fa già tanto in termini di qualità della loro vita e dell’accoglienza.
Che cosa sarà invece, giuridicamente, la struttura di San Giuliano? Sarà un CARA o un progetto SPRAR? Piuttosto il primo, a giudicare dall’elevato numero di persone che si prevede di alloggiare -800 in un paese che conta 1100 abitanti.
O forse sarà qualche altro mostro giuridico partorito dalla gestione emergenziale, che nel nostro paese autorizza sempre più spesso a scavalcare leggi e diritti delle persone? Come è stato per il centro di Campochiaro allestito nel 2011, teoricamente non un CIE: nel quale però i cittadini normali non potevano entrare, dal quale i migranti non potevano uscire.
Ma soprattutto, come e da chi verrà gestito il centro? Con che protagonismo delle persone ospitate? Verranno garantiti un’adeguata assistenza, corsi di italiano, assistenza legale, programmi di inserimento lavorativo?
In attesa di conoscere le risposte a queste domande, questi “dettagli” che fanno la qualità della vita di persone che, in quanto richiedenti protezione internazionale, avrebbero precisi diritti, non ci sentiamo di lodare chi ha avuto quest’idea. La stessa persona che, a proposito del centro di Campochiaro, aveva lodato l’operato della Protezione Civile.
In questo quadro, non possiamo fare a meno di avere dubbi e riserve. Ci viene da sospettare che dietro tutta la retorica dell’accoglienza di chi è meno fortunato di noi, dell’apertura al diverso, del recupero virtuoso di strutture abbandonate, ci sia un progetto che in realtà non è altro che un confinamento in un ennesimo non-luogo, un parcheggio, una soluzione tampone alla cronica mancanza di posti all’interno del sistema SPRAR; nella migliore delle ipotesi un mero assistenzialismo, che nega protagonismo e soggettività ai migranti, come è stato in buona parte nelle strutture dell’emergenza nord Africa.
Per ora i nostri sono solo sospetti: aspettiamo di verificare come si evolverà il progetto, che tipo di scelte verranno portate avanti riguardo alla qualità dei servizi, e soprattutto vigileremo perché i diritti e la dignità dei richiedenti asilo vengano rispettati, perché non si pensi che basti offrire vitto e alloggio e farsi fotografare stringendo la mano all’africano sfigato di turno per dirsi antirazzisti e solidali.
Un tetto sulla testa e un pasto al giorno sono semplicemente carità. Diritti, dignità, possibilità di auto-determinarsi è quello che una società giusta e un paese civile dovrebbero garantire non solo ai richiedenti asilo, ma a tutt* i/le migranti.
Laura Acquistapace
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