La crisi del Capitale porta con sé la crisi della democrazia

di Paolo Di Lella

La crisi del Capitale internazionale continua a far sentire i suoi effetti sulla pelle dei lavoratori. I dati negativi sulla disoccupazione, sulla produttività e sui consumi nelle aree a capitalismo avanzato sono la conferma che il peggio non è affatto alle spalle, come invece gli economisti “classici” continuano a ripetere. Gli indicatori economici ci permettono di tracciare un quadro in cui emerge sempre più nitidamente il carattere strutturale della crisi.

In tale contesto va inquadrata la questione della speculazione finanziaria, all’origine della quale c’è la sovraccumulazione di capitale precedente la crisi, mentre i suoi effetti rispondono alla logica naturale o per meglio dire, al fisiologico andamento delle “bolle” causate dal facilitamento dell’accesso al credito col quale si è creduto di risolvere il problema della contrazione del potere d’acquisto.

La parola all’ordine del giorno in queste settimane, tuttavia, è quella del “debito”. Vediamo di capire meglio i motivi di tanto clamore. In realtà la questione è strettamente connessa a quella della bolla: per decenni si è provato a trainare l’economia incoraggiando l’indebitamento privato e quello pubblico, poi arriva il giorno del brusco risveglio, quando si scopre che i debiti non pagabili prima o poi genereranno il fallimento generalizzato. Quindi stop all’indebitamento. Né per i singoli, né per gli Stati. Salvo poi affidare ai governi nazionali un ultimo grande compito: socializzare le perdite delle grandi corporation finanziarie. Cioè di coloro che l’hanno generata.

Ma perché la questione del debito viene fuori proprio ora? Forse che i creditori hanno bisogno di incassare subito gli interessi? Tutta colpa della Cina che teme l’irresponsabilità degli USA?

O forse è colpa del Parlamento italiano che non si decide a varare la manovra? Queste spiegazioni, per quanto plausibili in parte, non spiegano tuttavia la cifra vera della posta in gioco. In realtà la spiegazione sta nel disegno di vecchi e nuovi capitalisti, di grandi gruppi finanziari, che consiste nell’acquisire a prezzi di saldo, i beni pubblici.

Lo Stato, dicono, ha esaurito la sua funzione politica. Tutto ciò che deve fare è vendere, anzi svendere, insomma: privatizzare. Meglio ancora se si decidesse a scomparire.

In quest’ottica va letto il commissariamento di fatto dell’Italia da parte della BCE. A decidere devono essere i mercati.

Per realizzare questo colpo di Stato strisciante, i poteri forti, satelliti della governance finanziaria ed economica globale, hanno dovuto lavorare su due fronti: politicamente, avviando un processo di estromissione dei partiti e dei sindacati antagonisti, la cosiddetta sinistra radicale, da tutti i livelli istituzionali; sul piano culturale, dando luogo ad un’equiparazione semantica tra i concetti di “mercato” e “cittadini”. Quando si dice che a decidere sono i mercati sembra quasi di stare di fronte ad una rivoluzione partecipativa e democratica. In effetti, è vero esattamente il contrario. Siamo di fronte ad una contrazione democratica con pochi precedenti nella storia. I cittadini non decidono nulla, nel senso che sono costretti a scegliere tra schieramenti solo apparentemente opposti ma che, fondamentalmente, si preparano ad avvallare le stesse scelte. Semplici esecutori di decisioni più grandi di loro.

La cronaca politica italiana conferma puntualmente quanto descritto.

Se l’obiettivo dichiarato è quello delle privatizzazioni, a questo punto si tratta solo di scegliere l’esecutore più affidabile, il “terminator”, un risolutore dalla mente fredda e il cuore duro.

Il centro-destra sta vivendo la crisi più profonda degli ultimi venti anni, dilaniato dagli scandali del premier (ma non solo), da una corruzione diffusa e generalizzata, dai contrasti con la Lega – un partito sempre più populista e nel senso più conservatore del termine -, e indebolito dal consolidamento del “terzo polo”.

Quindi l’identikit del boia, come del resto accade sempre in Italia nei momenti topici, sembrerebbe corrispondere ad una coalizione di centro-sinistra magari guidata da un Profumo o da un Montezemolo. Non dimentichiamo che nel nostro paese, è proprio il centrosinistra il portavoce dei mercati, dei governi tecnici, dei tagli al welfare, dei pareggi di bilancio, della controriforma delle pensioni, della controriforma continua del mercato del lavoro; mentre al centrodestra è lasciato il compito di ribattere politicamente a queste accuse dicendo paradossalmente una parte di verità: l’attacco finanziario all’Italia è appunto fatto dai grossi speculatori internazionali, che non sono i cittadini che hanno paura e vendono azioni, ma sono i fondi d’investimento che muovono milioni di azioni e determinano il quadro finanziario del nostro Paese.

Il panorama politico, analizzato nel complesso, si potrebbe disegnare come un campo di forze liberiste, la cui risultante, voluta o non voluta, esprime le tendenze fondamentali del mercato continentale e internazionale. In tutto ciò le uniche forze neutralizzate e annullate sono quelle della sinistra cosiddetta radicale, non che abbiano una particolare forza egemonica, ma comunque vengono estromesse per scongiurare il pericolo che possano fare da megafono alle istanze delle realtà antagoniste e di opposizione anti-liberista.

Il terzo polo sta lì a garantire eventuali appoggi esterni nel caso in cui il PD non dovesse dimostrarsi autosufficiente, cioè nel caso che i partiti alla sua sinistra tentassero di spostare dalla loro parte l’asse di governo.

I vendoliani si dimostrano “più realisti del re” e si affannano, infatti, ad allinearsi come dimostra, per fare un solo esempio, la disponibilità dichiarata più volte a formare un governo tecnico coi finiani.

A completare il quadro rimane il partito di Di Pietro. In una coalizione senza un partito comunista occorre un distrattore del popolo, qualcuno che sposti l’attenzione delle fasce popolari inconsapevoli su obiettivi secondari e illusori. In breve, l’Italia dei valori propone la cosa più ridicola del mondo: i tagli della politica e la soppressione delle province. Come se non esistessero le province in tutto il mondo e come se tagliare cento o duecento deputati sia un possibile palliativo a questa crisi.

Dal generale al particolare. Se il Molise non è l’isola felice, evidentemente non è neanche una realtà avulsa dal contesto nazionale. Infatti, se su larga scala il PD si prepara a “governare” il ciclo ultra-liberista imposto all’Italia dalla BCE, anche nel Molise il partito di maggioranza del centrosinistra impone alla coalizione un candidato di destra, Paolo Di Laura Frattura, sostenitore accanito delle famigerate ricette “lacrime e sangue”, come lui stesso conferma finanche nei comizi. Un’elezione resa possibile grazie ad un processo di colonizzazione attuato dal PD verso le componenti della sinistra più sensibili al richiamo istituzionale.

Il caso di SEL, in questo senso, è paradigmatico.Il segretario uscente, Mauro Natalini, era stato tra i principali sponsor dell’operazione Fanelli. La sua parabola discendente alla guida del partito, culminata con l’indagine riguardante l’ipotesi di abuso d’ufficio, apre la strada al nuovo segretario Candido Paglione, uomo organico al PD, eletto tre giorni dopo il suo tesseramento e poche settimane prima la competizione delle primarie. Quello che si dice tempismo. Non a caso la segreteria si pronuncerà a sostegno del candidato “sinistro” del PD Michele Petraroia – secondo di lusso – e non a caso la stessa segreteria, non senza defezioni, si pronuncerà a favore della candidatura di Frattura mentre gli altri promotori del comitato per le primarie, persino il moderatissimo PdCI, ne chiedevano l’esclusione.

Che niente accada per caso è legge di natura e non c’è niente di cui stupirsi, quindi, se ad oggi Frattura sia il candidato del centrosinistra per la giunta regionale e Petraroia il re magio che consegna nelle sue mani i voti di quel che rimane della sinistra.